domenica 5 novembre 2017

L'anno che portavi i capelli corti - Danae Lorne e Lena Vinci - Recensione


L'anno che portavi i capelli corti
Danae Lorne e Lena Vinci

Danae Lorne e Lena Vinci sono due amiche che scrivono insieme. Danae è già nota ai lettori per la trilogia Il canto delle cicale, Sottopelle e Cuore mancino, tutti romanzi pubblicati da EEE.



Pubblicato il 7 novembre 2006,
ebook € 2,99
Cartaceo € 16,00
Edizioni Esordienti Ebook
 
Trama

Silvana deve tornare in Toscana, dopo venti anni d’assenza, per seppellire suo padre. E rovistando tra le polverose cianfrusaglie di quel passato che si era lasciata alle spalle scopre delle lettere, vecchie lettere nascoste con cura. Chi scrive è Agnese l’amante di Elena... sua madre.
Le due donne si erano conosciute da ragazze e si erano innamorate nonostante tutto. Nonostante la vergogna, nonostante la paura e l’ipocrisia di un mondo che stava per cambiare (erano gli anni sessanta) ma che ancora non era pronto ad accettare un amore “diverso” come il loro. Elena però non aveva avuto il coraggio di sfidarlo fino in fondo quel mondo, ad un certo punto si era illusa di poter condurre una vita “normale” e si era chiusa nella sua nicchia protetta costringendosi a recitare il ruolo di moglie e di madre.
Per Silvana comincia quindi uno struggente viaggio a ritroso che le racconterà l’altra faccia dell’amore, di un amore sacrificato alla vergogna ma che resisterà al tempo e alla morte e darà a lei il coraggio di rimettersi in discussione e cambiare la sua vita.

INCIPIT
Quando la zia Adele mi aveva telefonato per dirmi di papà, avevo avuto un attimo di straniamento ed era stato per questo che non le avevo risposto con la partecipazione che si sarebbe legittimamente aspettata. In realtà io ero abituata da molti anni allo spazio vuoto che la parola padre definiva nella carta geografica dei miei affetti e la notizia che, lontano da qui, in una casa anonima della periferia pisana, la salma di un vecchio reclamava la mia presenza e le mie lacrime mi poneva in uno stato d’animo indecifrabile che somigliava in parte alla reminiscenza confusa di un dolore, in parte al sentirmi vittima di un equivoco. Mio padre per me era morto venti anni prima, insieme a mia madre. Di fatto, pur non essendo morto fisicamente, dopo quella tragedia, era cambiato in una maniera così improvvisa e profonda da trasformarlo in una persona emotivamente irraggiungibile. Era come se quella perdita avesse esasperato, in misura patologica, certi aspetti del suo carattere, già così ostico anche al tempo di quella che era stata la nostra normale vita famigliare. E infatti, a qualunque età della mia vita fossi risalita attraverso i miei ricordi, il mio rapporto con lui avrebbe potuto essere descritto, invariabilmente, come un indefesso tirocinio psicologico nel quale con il suo atteggiamento scostante, la sua aria assente, le sue risposte brusche, sempre pronte a colpirmi a bruciapelo, mi aveva abituata a tenere le distanze, a frenare gli slanci, e a non esprimere mai nulla di eccessivamente personale. Ricordo ancora, tra le abitudini della nostra vita famigliare, le lunghe passeggiate silenziose per i sentieri delle nostre colline nelle quali lo avevo seguito da bambina, trotterellandogli alle calcagna per ore come un cagnolino nella speranza che prima o poi mi concedesse l’elemosina della sua attenzione. Una volta venuta a mancare mia madre, il nostro legame fragile, nato più dalla mia paziente ricerca del suo affetto che da un suo naturale istinto paterno, si era reciso con uno strappo violento e io mi ero ritrovata dall’oggi al domani a dover cercare un posto dove vivere, fuori da quella casa dove ormai entrambi ci aggiravamo come fantasmi, nel silenzio più assoluto e mettendo il massimo impegno nel non trovarci mai l’uno di fronte all’altra. Avevamo trascorso quasi un anno sopravvivendo in quel modo, poi quando non avevo più potuto accettare quell’estraneità e mi ero resa conto di non avere più alcuna risorsa per contrastarla, avevo raccolto i miei quattro stracci e, con l’ausilio di un piccolo lascito di mia madre, avevo iniziato una nuova vita in un posto il più possibile lontano da lì.



I viaggi che intraprendiamo non sono sempre e solo viaggi fisici. I più importanti, quelli che ci cambiano e fanno di noi persone nuove, sono solo i viaggi dell’anima. Quelli inaspettati sono i migliori, anche se fanno male e ci sconvolgono la vita.
“L’anno che portavi i capelli corti”, scritto a quattro mani da Danae Lorne e Lena Vinci non è un romanzo facile, e non racconta una storia scontata. Quelli che, a prima vista, sembrano essere i protagonisti, dopo un po’ diventano solo il mezzo attraverso il quale i veri protagonisti si fanno spazio: emozioni, riflessioni, consapevolezza e accettazione. 
Da lettrice, se dovessi  parlare di questo romanzo, non citerei i nomi delle persone che conosciamo durante la lettura; parlerei dell'animo umano e di un percorso doloroso ma necessario, fra  riflessione e amore. 
Silvana, la protagonista principale, parte alla volta della Toscana per il funerale del padre, ma quel viaggio la porta a farne un altro alla ricerca di sua madre e della storia della sua famiglia, abbandonata più di venti anni prima, dopo la morte della donna. In realtà, nei giorni in cui rimarrà nella vecchia casa disabitata,  Silvana compirà un viaggio interiore che la farà diventare una donna nuova, più aperta e capace di comprendere ciò che, fino a quel momento, non aveva capito e perdonato. La storia di Silvana si intreccia con quella di Elena e Agnese, due donne che, a distanza di anni, e grazie a uno scambio epistolare, le faranno capire il vero significato dell’amore; di un amore vero e sincero che, in un primo momento, lei si ostina a rifiutare. Attraverso le parole di Agnese e di altri ricordi, Silvana scoprirà che nulla, nella sua vita, è come aveva pensato fosse, ma non per questo quello che è stato deve essere rinnegato anche ora.
La storia è intensa, commovente, scritta con uno stile delicato che accarezza e colpisce. Una figlia, ora adulta, impara a guardare i suoi genitori con occhi da donna e non più da figlia. Una donna che comprende, partecipa, vuole capire e capisce quello che le è stato taciuto, quello che, forse, nessuno mai le avrebbe detto, se non fosse tornata fra le mura di quella vecchia casa. Quel percorso interiore permette a Silvana di aprirsi all’amore, di superare blocchi psicologici con i quali ha sempre convissuto, di lasciarsi andare emotivamente e di dire parole che non è mai stata capace di dire. Silvana ritrova se stessa guardando, dopo decenni, sua madre, suo padre, Nuto, il migliore amico dell’uomo, e Agnese, la donna che le permette di arrivare alla verità attraverso lettere scritte a sua madre Elena.
Silvana scopre che la sua famiglia “normale” e silenziosa non era affatto così normale come aveva sempre creduto. Ma in fondo, cos’è la normalità? Poniamoci questa domanda e lasciamo perdere le nostre convinzioni; lasciamo perdere quello che la società ci impone come concetto di normalità. L’unico, vero e solo concetto “normale” è l’amore in senso lato. Senza distinzione alcuna. 
“L’anno che portavi i capelli corti” è un bellissimo e toccante romanzo d’amore e noi del giardinodeigirasoli lo consigliamo vivamente.

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