Quel mobiletto bianco, in stile veneziano,
riccamente decorato con fiori e frutti
poco credibili, le provocava un fastidio quasi fisico, che la faceva star male ogni volta che lo guardava. Il tavolinetto o comodino –
ancora non riusciva a capire quale fosse il
suo ruolo – stonava con il resto dell’arredamento della stanza,
provocando una nota stridula capace di risaltare su tutte le altre, nonostante lei si sforzasse di non guardarlo spesso. Non si amalgamava proprio con il resto
dei mobili che, seppur messi insieme senza un filo logico, formavano
un’accozzaglia armonica e ricca di storia. La sua storia.
Tutti i mobili ammassati in quella
stanza erano la sommatoria della sua
vita. Ognuno di loro le ricordava ogni
singolo giorno ed era in grado di
riportare, in superficie, ricordi che la
facevano sorridere o piangere, così come quelli che riuscivano ancora a farla
arrabbiare, nonostante il tempo passato. Quell’ inutile
mobiletto senza storia era l’ultimo
arrivato. Non lo aveva pensato, scelto, voluto. Era proprio come quegli ospiti indesiderati che, tuttavia, a causa del sacro dovere
dell’educazione, devi sopportare pazientemente, in attesa che se ne vadano, lasciandoti
finalmente in pace dopo giorni di finti sorrisi che tirano le labbra.
Sua nuora era scesa, qualche giorno prima - non ricordava quando - ed era entrata in cucina attraverso
la portafinestra che dava sul cortile. Lei l’aveva guardata sorpresa e ansiosa mentre si
immobilizzava, senza dire una parola. Il suo sguardo vigile e glaciale
si era fermato a lungo sull’unico angolo della stanza che, fino a qualche giorno prima, era libero. Aveva capito benissimo da dove proveniva l’intruso. Tutto quello che stonava, in quella stanza, poteva essere stato scelto da
una sola persona. La stessa che, dalla morte di suo marito, aveva preso il
sopravvento su di lei, cercando, in tutti i modi, di plasmarla secondo i suoi
discutibili gusti.
Non le piacevano i decalcabili sulla parete,
l’orrendo quadro con i fiori stilizzati che faceva brutta mostra di sé vicino alla finestra , il porta
corrispondenza in stile moresco appoggiato sull’antica madia per il pane. Aveva
guardato quel mobiletto con disprezzo e anche con una strana
espressione comica. "E questo cos’è?” aveva chiesto, sapendo già che la risposta sarebbe
stata una bugia.
“Gliel’ ho detto io di comprarlo. Non ti piace?”
Lei aveva fatto cenno di no, lo aveva scostato dalla posizione in cui
lo avevano sistemato e si era seduta
vicino al calorifero. “ In questa stanza ci sono troppi mobili”, aveva
sentenziato.
“La gente dovrebbe chiedertelo se li vuoi, certi regali”, pensò,
scostando una pesantissima sedia di legno impagliata a mano e allontanandola
dal tavolo in stile fratino.
Una volta quel tavolo era lungo quasi tre metri e lei riusciva a
sistemarci dodici sedie come quella in cui, ora, era seduta. Poi tutto era
cambiato. La casa era stata divisa a metà e anche il tavolo aveva avuto lo
stesso trattamento. Ora non raggiungeva nemmeno il metro e mezzo.
Però la cucina era diventata più grande e comoda. Ora si poteva muovere liberamente, senza sbattere
continuamente contro gli spigoli. Quella era la sua patria, il suo regno, la
sua salvezza. Passava lì la maggior parte del
tempo, mentre tagliava, affettava, sbollentava.
Lei , la sua stanza e il sottofondo del volume del televisore,
sintonizzato sui programmi di lotto o superenalotto. Aveva sempre a portata di
mano un quadernetto dove trascriveva i numeri e le ruote che il mago
Jordan regalava tutti i giorni, in
attesa di poter, un giorno, fare il colpo della sua vita. Il quadernetto, però, lo teneva ben nascosto, dietro le scatole di biscotti e di fette biscottate,
nell’anta più alta della credenza. C’erano le macine, i galletti, i digestive, i pavesini, i biscotti del forno vicino casa... le fette
biscottate al miele, quelle integrali, o ai quattro cereali. Nella sua
dispensa non mancava nulla.
Era il suo orgoglio. La dottoressa le
aveva imposto un regime dietetico da
seguire, ma che male poteva fare se ogni tanto, almeno una volta a settimana
friggeva un po’ di pesce e due patatine? Posizionò meglio la sedia, ponendola in modo da poter avere la finestra
proprio di fronte e si apprestò a pulire i merluzzetti che suo figlio le aveva
lasciato nel lavello. Alla fine l’aveva avuta vinta lei e aveva convinto suo
marito, che ora non c’era più, a
comprarlo in acciaio inox , a due pozzetti. Si puliva benissimo. Bastava
un panno bagnato con l’aceto e tutti i cattivi odori andavano via. Due pozzetti e un piano di appoggio. Però non
aveva potuto scegliere uno scolapiatti lungo tanto quanto il lavello. No.
Quello no, perché c’era la caldaia che dava fastidio e suo marito non aveva
voluto farla spostare. Da quando aveva visto che sua nuora aveva ricoperto la
sua, di caldaia, di calamite, ne aveva fatto acquistare decine, di tutte le fogge e di
tutti i colori, da sua sorella, quella che, da un po’, era l’arredatrice della
sua casa.
La finestra si affacciava sulla strada più
trafficata del quartiere. Era una fortuna abitare a piano terra. Davvero una
fortuna. Quella finestra era il suo
sguardo verso l’esterno. La sua mole non le permetteva di uscire a fare due passi
ogni mattina, proprio come facevano le sue vicine di casa. Le vedeva passare e
ripassare ogni giorno, con passo svelto e cadenzato. Chiacchieravano
allegramente e animatamente, come se non si vedessero da molto tempo. D’estate,
poi, cambiavano orario e passavano lì davanti di sera, quando faceva finalmente
buio e il sole smetteva di tormentare la terra con i suoi raggi infuocati e
impietosi. Le guardava attraverso le imposte accostate,
dimenticando, però, di spegnere la luce alle sue spalle, senza rendersi conto
che lì, sulla strada,fra le ombre della sera, riflettute dalla luce dei
lampioni, c’era anche la sua, che si amplificava a terra e che induceva le
persone del quartiere a ridere di lei e della sua mania di spiare tutti
attraverso quella finestra silenziosa , con le imposte sempre accostate e con
la luce accesa alle sue spalle.