venerdì 10 novembre 2017

Ti guarderò morire - Filippo Semplici - Recensione


Ti guarderò morire
Filippo Semplici

***
Nato a Poggibonsi (SI) nel 1976, Filippo Semplici abita a Barberino val d’elsa (FI). Cresciuto leggendo King, Lovecraft e Poe, adora scrivere storie immaginarie e fantastiche perché, come dice lui, la realtà la vive tutti i giorni. È membro dell’Horror Writers Association. Nel 1999 pubblica il racconto Il cucciolo per Fanucci, selezionato da Valerio Evangelisti e nel 2006 il romanzo breve Senza paura, per Tabula Fati. Pubblica numerosi racconti per la rivista Inchiostro e per alcune antologie e siti web. Nel 2008 esce in ebook il romanzo Il giorno dei morti per Edizioni Esordienti Ebook. Nel 2016 vince il secondo premio del Concorso letterario Terni Horror Festival, con il romanzo Il faro, selezionato da Tullio Dobner.




  • Lunghezza stampa: 239 
  • Editore: Delos Digital (5 settembre 2017)
Ebook  € 3,99


Fai una vita come tanti: casa, lavoro, qualche svago. Hai una donna che ami e che ti ama. Con lei immagini il futuro, un’esistenza insieme, dei figli. Non puoi neanche immaginare che da qualche parte c’è sempre qualcuno pronto a guardarti morire.


Quando Orlando parte per una vacanza in Toscana insieme a Elise, la sua compagna, ha la testa piena di idee: buon vino, campeggi, divertimento. Ma è sulla strada del ritorno, durante una sosta a Borgoladro, che qualcosa cambia. In quel piccolo paese arroccato tra le colline, abitato da vecchi in pensione, si respira un’atmosfera ambigua. Quella gente è strana, e Orlando non tarderà a scoprire sulla sua pelle la loro vera natura omicida.
Braccato, ferito, strappato dalle braccia di Elise, sarà costretto a una sfida contro il tempo e sé stesso, se vorrà salvarla dalla furia bestiale degli abitanti. Ma mentre dovrà fare i conti con dolore e paura, troppi interrogativi emergono inquietanti: come mai quelle persone sembrano abituate a uccidere? E chi sono quelli là? E soprattutto, cosa si nasconde davvero dietro l’apparente quiete di un sonnacchioso paese toscano?
Perché tra i tanti misteri, una sola cosa è certa: a Borgoladro, nulla è quello che sembra.

Le mie riflessioni:

Premetto che non amo tantissimo questo genere letterario. 
In un primo momento avevo pensato di far recensire “Ti guarderò morire” dall’altra blogger del giardinodeigirasoli, ma poi ho cambiato idea. In realtà l’ho cambiata dopo aver superato, alla terza prova di lettura, il terrore che si era impossessato di me.
La prima volta avevo iniziato a leggere il thriller verso le ventidue; devo dire che non era stata una grande idea. La storia di Orlando ed Elise mi aveva buttato dentro un incubo, e io non ero preparata. Tachicardia, stupore e paura. La stessa paura provata dai due protagonisti una volta scoperto quello che stava loro accadendo. 
Io, però, potevo scappare. 
Loro no. 
La seconda volta fu un paio di giorni dopo. Di mattina, quando il sole splendeva e gli incubi notturni parevano meno terrificanti. Lessi solo qualche riga in più e non ce la feci. La tensione emotiva, la paura, il respiro di Orlando e di Elise erano addosso a me; mi soffocavano.

La terza volta è stata ieri. Pur temendo quel momento, non riuscivo a decidere di lasciar perdere l’idea di portare a termine la lettura. La paura va affrontata e combattuta. Lo fa Orlando, il protagonista, e l’ho fatto io, fino a oltre la mezzanotte. Sì, perché, superato il primo scoglio, assimilata  l’adrenalina che scuote ogni cellula del corpo, e il terrore che soffoca, non si è più in grado di smettere e si segue il ritmo serrato della storia volendo saperne sempre di più, con un solo pensiero in mente: e ora cosa accadrà?
Orlando supera quella stessa paura e da vittima diventa carnefice, cacciatore, violento e imprevedibile. Impossibile raccontare la storia senza fare spoiler, ed è per questo che non ne parlerò. Quello che mi ha colpito di più, in questo romanzo, è stata l’assoluta accettazione, durante la lettura, delle scene violente, del sangue e della tensione al cardiopalma che si respira in ogni riga. 
La narrazione è sempre ritmica, tendente all’esasperazione, all’orrore. Il linguaggio usato è scarno e diretto, adatto al genere e ai personaggi. Un finale sorprendente che sconvolge ogni idea maturata durante la lettura. Un colpo di scena che apre nuovi scenari, e io non vedo l’ora di sapere cosa accadrà dopo.

domenica 5 novembre 2017

L'anno che portavi i capelli corti - Danae Lorne e Lena Vinci - Recensione


L'anno che portavi i capelli corti
Danae Lorne e Lena Vinci

Danae Lorne e Lena Vinci sono due amiche che scrivono insieme. Danae è già nota ai lettori per la trilogia Il canto delle cicale, Sottopelle e Cuore mancino, tutti romanzi pubblicati da EEE.



Pubblicato il 7 novembre 2006,
ebook € 2,99
Cartaceo € 16,00
Edizioni Esordienti Ebook
 
Trama

Silvana deve tornare in Toscana, dopo venti anni d’assenza, per seppellire suo padre. E rovistando tra le polverose cianfrusaglie di quel passato che si era lasciata alle spalle scopre delle lettere, vecchie lettere nascoste con cura. Chi scrive è Agnese l’amante di Elena... sua madre.
Le due donne si erano conosciute da ragazze e si erano innamorate nonostante tutto. Nonostante la vergogna, nonostante la paura e l’ipocrisia di un mondo che stava per cambiare (erano gli anni sessanta) ma che ancora non era pronto ad accettare un amore “diverso” come il loro. Elena però non aveva avuto il coraggio di sfidarlo fino in fondo quel mondo, ad un certo punto si era illusa di poter condurre una vita “normale” e si era chiusa nella sua nicchia protetta costringendosi a recitare il ruolo di moglie e di madre.
Per Silvana comincia quindi uno struggente viaggio a ritroso che le racconterà l’altra faccia dell’amore, di un amore sacrificato alla vergogna ma che resisterà al tempo e alla morte e darà a lei il coraggio di rimettersi in discussione e cambiare la sua vita.

INCIPIT
Quando la zia Adele mi aveva telefonato per dirmi di papà, avevo avuto un attimo di straniamento ed era stato per questo che non le avevo risposto con la partecipazione che si sarebbe legittimamente aspettata. In realtà io ero abituata da molti anni allo spazio vuoto che la parola padre definiva nella carta geografica dei miei affetti e la notizia che, lontano da qui, in una casa anonima della periferia pisana, la salma di un vecchio reclamava la mia presenza e le mie lacrime mi poneva in uno stato d’animo indecifrabile che somigliava in parte alla reminiscenza confusa di un dolore, in parte al sentirmi vittima di un equivoco. Mio padre per me era morto venti anni prima, insieme a mia madre. Di fatto, pur non essendo morto fisicamente, dopo quella tragedia, era cambiato in una maniera così improvvisa e profonda da trasformarlo in una persona emotivamente irraggiungibile. Era come se quella perdita avesse esasperato, in misura patologica, certi aspetti del suo carattere, già così ostico anche al tempo di quella che era stata la nostra normale vita famigliare. E infatti, a qualunque età della mia vita fossi risalita attraverso i miei ricordi, il mio rapporto con lui avrebbe potuto essere descritto, invariabilmente, come un indefesso tirocinio psicologico nel quale con il suo atteggiamento scostante, la sua aria assente, le sue risposte brusche, sempre pronte a colpirmi a bruciapelo, mi aveva abituata a tenere le distanze, a frenare gli slanci, e a non esprimere mai nulla di eccessivamente personale. Ricordo ancora, tra le abitudini della nostra vita famigliare, le lunghe passeggiate silenziose per i sentieri delle nostre colline nelle quali lo avevo seguito da bambina, trotterellandogli alle calcagna per ore come un cagnolino nella speranza che prima o poi mi concedesse l’elemosina della sua attenzione. Una volta venuta a mancare mia madre, il nostro legame fragile, nato più dalla mia paziente ricerca del suo affetto che da un suo naturale istinto paterno, si era reciso con uno strappo violento e io mi ero ritrovata dall’oggi al domani a dover cercare un posto dove vivere, fuori da quella casa dove ormai entrambi ci aggiravamo come fantasmi, nel silenzio più assoluto e mettendo il massimo impegno nel non trovarci mai l’uno di fronte all’altra. Avevamo trascorso quasi un anno sopravvivendo in quel modo, poi quando non avevo più potuto accettare quell’estraneità e mi ero resa conto di non avere più alcuna risorsa per contrastarla, avevo raccolto i miei quattro stracci e, con l’ausilio di un piccolo lascito di mia madre, avevo iniziato una nuova vita in un posto il più possibile lontano da lì.



I viaggi che intraprendiamo non sono sempre e solo viaggi fisici. I più importanti, quelli che ci cambiano e fanno di noi persone nuove, sono solo i viaggi dell’anima. Quelli inaspettati sono i migliori, anche se fanno male e ci sconvolgono la vita.
“L’anno che portavi i capelli corti”, scritto a quattro mani da Danae Lorne e Lena Vinci non è un romanzo facile, e non racconta una storia scontata. Quelli che, a prima vista, sembrano essere i protagonisti, dopo un po’ diventano solo il mezzo attraverso il quale i veri protagonisti si fanno spazio: emozioni, riflessioni, consapevolezza e accettazione. 
Da lettrice, se dovessi  parlare di questo romanzo, non citerei i nomi delle persone che conosciamo durante la lettura; parlerei dell'animo umano e di un percorso doloroso ma necessario, fra  riflessione e amore. 
Silvana, la protagonista principale, parte alla volta della Toscana per il funerale del padre, ma quel viaggio la porta a farne un altro alla ricerca di sua madre e della storia della sua famiglia, abbandonata più di venti anni prima, dopo la morte della donna. In realtà, nei giorni in cui rimarrà nella vecchia casa disabitata,  Silvana compirà un viaggio interiore che la farà diventare una donna nuova, più aperta e capace di comprendere ciò che, fino a quel momento, non aveva capito e perdonato. La storia di Silvana si intreccia con quella di Elena e Agnese, due donne che, a distanza di anni, e grazie a uno scambio epistolare, le faranno capire il vero significato dell’amore; di un amore vero e sincero che, in un primo momento, lei si ostina a rifiutare. Attraverso le parole di Agnese e di altri ricordi, Silvana scoprirà che nulla, nella sua vita, è come aveva pensato fosse, ma non per questo quello che è stato deve essere rinnegato anche ora.
La storia è intensa, commovente, scritta con uno stile delicato che accarezza e colpisce. Una figlia, ora adulta, impara a guardare i suoi genitori con occhi da donna e non più da figlia. Una donna che comprende, partecipa, vuole capire e capisce quello che le è stato taciuto, quello che, forse, nessuno mai le avrebbe detto, se non fosse tornata fra le mura di quella vecchia casa. Quel percorso interiore permette a Silvana di aprirsi all’amore, di superare blocchi psicologici con i quali ha sempre convissuto, di lasciarsi andare emotivamente e di dire parole che non è mai stata capace di dire. Silvana ritrova se stessa guardando, dopo decenni, sua madre, suo padre, Nuto, il migliore amico dell’uomo, e Agnese, la donna che le permette di arrivare alla verità attraverso lettere scritte a sua madre Elena.
Silvana scopre che la sua famiglia “normale” e silenziosa non era affatto così normale come aveva sempre creduto. Ma in fondo, cos’è la normalità? Poniamoci questa domanda e lasciamo perdere le nostre convinzioni; lasciamo perdere quello che la società ci impone come concetto di normalità. L’unico, vero e solo concetto “normale” è l’amore in senso lato. Senza distinzione alcuna. 
“L’anno che portavi i capelli corti” è un bellissimo e toccante romanzo d’amore e noi del giardinodeigirasoli lo consigliamo vivamente.

mercoledì 1 novembre 2017

Era mia madre - Emiliana Erriquez- Recensione


Era mia madre
Emiliana Erriquez


“Era mia madre” racconta la storia di Elena, una ragazzina che affronta l’asprezza e la difficoltà dell’immediato dopoguerra in una città del sud. Confinata nel proprio quartiere, nella propria casa, Elena scoprirà come sia difficile diventare adulta rinunciando spesso ai propri sogni, soffocando desideri e impulsi. La ragazzina instaura un legame speciale con suo fratello Pino, più grande di lei solo di pochi anni. I due vivono quasi in simbiosi, si cercano, si difendono, si divertono insieme fino a quando il destino deciderà per loro.
Un giorno nella sua vita arriverà Pino, un giovane uomo che porta casualmente lo stesso nome del suo amato fratello e che sarà in grado di regalarle amore incondizionato e indipendenza.
Elena, a costo di enormi sacrifici, riuscirà infine a riscattarsi e lo farà attraverso le persone più importanti della sua vita.
Autrice: Emiliana Erriquez
Genere: Narrativa contemporanea
Editore: Self-publishing
Prezzo: € 2,99 - €  7,80   cartaceo
Link di acquisto:Amazon
Sito: www.emilianaerriquez.com
Blog: mammainlove.wordpress.com
Facebook: Emiliana Erriquez
Pagina Facebook di Emiliana Erriquez: https://www.facebook.com/Emiliana-Erriquez-author-534247786624432/
Twitter: @emyerriquez
Instagram: emilianaerriquez

Emiliana Erriquez ha una laurea in Lingue e Letterature Straniere conseguita nel 2002 e un Master in Traduzione inglese-italiano. Con un passato da giornalista, ora si occupa a tempo pieno di traduzione dall’inglese all’italiano di libri di autori internazionali dopo aver vissuto per un breve periodo negli Stati Uniti. È autrice del saggio ‘Oriana Fallaci: una vita vissuta in pienezza’ vincitore del premio Giuseppe Sciacca 2006, sezione saggistica. Gestisce un blog, mammainlove.wordpress.com, in cui racconta la vita di una mamma che scrive e traduce.

Membro di EWWA (European Writing Women Association), del WLC (World Literary Cafè) e di IAN (Indipendent Author Network).
Le sue pubblicazioni sono:
Lasciami stare
Sono solo una bambina
Il mare è sempre lì che ti guarda
Non lasciami cadere
Tutti i colori del mio cuore
Ti aspettavo da una vita
Io sono Nina
Era mia madre
Difficile recensire l’ultimo romanzo di Emiliana Erriquez. Lo è per me, che nelle parole della lettera che una figlia adulta scrive a una madre che non c’è più, ha ritrovato parole che lei non ha avuto il coraggio di dire. Non vi nascondo che ho pianto, durante la lettura, ma quel pianto è stato il più bello di tutti, quello che dovrebbe unire le figlie che non hanno compreso la propria madre e non sono riuscite a vedere, in lei, la donna che era, era stata e avrebbe voluto loro fossero. 
Uno stile, quello di Emiliana, che avrei riconosciuto anche se non avessi saputo che era stata lei, a scrivere il romanzo. 
Due romanzi in uno, in realtà: una lunga lettera intima, piena d’amore e di dolore che scava il cuore parola dopo parola, interrotta, ogni tanto, dalla storia di Elena, la donna alla quale quella lettera è dedicata. 
Una storia ambientata nel secondo dopoguerra; la storia che potrebbe essere quella di nostra madre o di nostra nonna, se vogliamo. Una storia di una famiglia come tante; una storia che sa di casa, di tradizioni e di “Sud” come solo il Sud sa essere: falsamente spietato e con un amore immenso nascosto nel cuore, restio a mostrarsi ma molto più forte di quanto si possa immaginare. 
Mentre leggevo la storia di Elena e dei suoi genitori, di sua madre, soprattutto, ho ricordato parole che mi venivano dette da piccola: “I figli si accarezzano quando dormono”, diceva mia madre, donna che, come Elena e sua madre, non era avvezza  a grandi dimostrazioni di affetto.
Le storie di Emiliana Erriquez sono semplici e, per questo motivo, belle da leggere e da ricordare. Le sue parole commuovono fino alle lacrime con una semplicità disarmante, quella stessa semplicità che vedi nei suoi occhi e che traspare da ogni foto che la ritrae.
Le belle storie come “Era mia madre” possono essere scritte solo da belle persone come Emiliana, che raccontano le emozioni con una delicatezza rara, senza ostentazione, senza paura.
Un romanzo da consigliare a tutte le donne che sono ancora figlie e non ancora madri, ma anche a chi madre lo è già e teme di fare gli stessi errori della propria. Un romanzo da consigliare a chi pensa che le storie semplici non siano belle; a chi vuole trovare pura poesia in una famiglia del Sud, e a chi quella poesia la vive ancora oggi e non se ne accorge. 
Un romanzo che spinge a guardare oltre le apparenze, oltre l’ostentata e finta freddezza emotiva, e oltre il nostro risentimento. 

Un romanzo che, se letto attentamente, ci parlerà molto di noi.

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