mercoledì 13 luglio 2016

PARLIAMO DI

SCRITTORI O SCRIVENTI? 
QUESTIONE DI ETICA

L’etica è una branca della Filosofia che studia i fondamenti razionali, che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico, ovvero distinguerli in buoni, giusti e leciti, rispetto a comportamenti ritenuti esattamente il contrario di quelli citati. 
Il metro usato per misurare tali comportamenti è, spesso, un ideale modello comportamentale. 
Quando l’etica incontra un particolare tipo di professione, diventa “etica professionale”. Con questo termine intendiamo l’insieme delle condizioni e delle norme morali che regolano l’esercizio di una specifica professione e che sono considerate, dalla società, come universalmente vincolanti per coloro che la esercitano.
Chi ama scrivere, spesso, pensa che essere “uno scrittore” equivalga a essere un figlio prediletto del cielo, dotato di una capacità che manca a molti altri: L’utilizzo creativo della parola scritta, e dimentica che la scrittura è, soprattutto, una  vera professione. 
Quando chi scrive definisce se stesso “scrittore", inquadra la sua attività all’interno di una categoria ben definita, che  racchiude chi esercita la professione della scrittura. 
Se ci si sofferma a pensare a quanto appena asserito, una domanda dovrebbe sorgere spontanea: “Lo scrittore, quale appartenente a una categoria professionale ben identificata, deve rispettare uno specifico Codice etico? 
E se la risposta è affermativa, quali dovrebbero essere le regole comportamentali che lo stesso è obbligato a seguire? Qual è la deontologia professionale da rispettare, per far sì che i suoi fini e i suoi mezzi siano sempre strettamente dipendenti gli uni dagli altri? Se qualcuno di voi lettori si prendesse la briga di fare una ricerca in rete, scoprirebbe che non esiste un Codice etico ufficiale dello scrittore. Forse non esiste nemmeno quello ufficioso. Eppure, chi ha la pretesa di farsi definire “scrittore”, dovrebbe  assoggettarsi, senza alcuna trasgressione, a poche, basilari e “sacre” regole:
  1. Lo scrittore osserva e rispetta la lingua italiana;
  2. Lo scrittore conosce la grammatica italiana;
  3. Lo scrittore padroneggia l’uso della punteggiatura;
  4. Lo scrittore conosce la tecnica narrativa;
  5. Lo scrittore sa cos’è  la struttura narrativa;
  6. Lo scrittore sa cos’è una cartella editoriale;
  7. Lo scrittore presenta i suoi scritti impaginati correttamente.
Se chi leggendo queste riflessioni, pensa di non doversi soffermare un solo minuto in più sul mio scritto, o è già un vero scrittore, o è un semplice scrivente. Lo scrivente scrive per se stesso e non ha obblighi o doveri cui assoggettarsi. Lo scrittore, invece, senza che nessuno glielo ricordi, sa, soprattutto, che la regola più importante da seguire è quella che lo obbliga a rispettare sempre e comunque il "potenziale lettore". 
Chi legge i nostri scritti ha il diritto di farlo divertendosi; ha il diritto di criticarci; ha il diritto di leggere storie scritte in maniera corretta; ha il diritto di leggere storie “tecnicamente credibili”.
Chi legge i nostri scritti ha, soprattutto, il diritto di scegliere la categoria alla quale apparteniamo. Sarà lui a decidere se siamo scriventi o scrittori. E non mi sembra cosa da poco.




Jessica ScarlettRose

Biografia: A Jessica ScarlettRose, classe 1995, appartiene da tempo la voglia di scrivere, ovvero da quando frequentava le elementari; poi, alle superiori, divenne più consapevole. Ha pubblicato la sua prima opera (in formato cartaceo) nel 2014, un mese dopo il compimento dei diciannove anni, grazie alla casa editrice Kimerik. Partecipa ai concorsi più disparati, sia di genere narrativo, sia di poesia per i quali ha già ricevuto alcuni riconoscimenti pubblici. Riguardo al suo percorso formativo, si è diplomata presso il Liceo Psico Pedagogico Sociale; prosegue in via privata gli studi a impronta socio-umanistica, in quanto ora si diletta nello studio del linguaggio non verbale, della psiche umana e della criminologia. Scrive anche articoli per tre riviste. Rispettivamente: NoèLife, Sociart Network e Shoujo Love. Di recente, ha incominciato a dare il proprio contributo a piccola casa editrice, in cui svolge il ruolo di Beta Reader e correttrice di bozze. Ama il genere gotico in tutte sue forme e declinazioni. Infatti posa in qualità di fotomodella alternativa dal 2014, un modo attraverso cui ha potuto, a maggior ragione, esprimere se stessa.
Link utilihttps://www.facebook.com/JessicaScarlettRose/ (Pagina Facebook).


Cosa leggeremo per voi:


Titolo"Necrotica. Trama di un sogno e sottile raso d'incubo"
Pagine: 95
Genere: Dark Fantasy
Costo: 0,99€ (ebook), 9€ (cartaceo, in offerta a 5.90€ su Amazon)
Data di uscita: 20 marzo 2016 
Trama: "L’Immortalità ha da sempre affascinato l’uomo. Sacerdoti, alchimisti, ricercatori basano i loro studi per prolungare la vita umana quanto più possibile, per combattere la paura della morte. Poi ci sono i Vampiri. Il lapislazzulo non protegge dalla luce del sole, che è rigorosamente vietata. I sentimenti scemano pian piano, lasciando solamente una gran collera dentro di te, una furia incapace di essere colmata anche col sangue. Doversi attenere a Patti Antichi andando contro il tuo essere, dover rifuggire le persone che si amano, con cui si è stretto un profondo legame. Dover mentire sulla propria identità, sulla propria età, mostrarsi più stolti ed ignoranti di quanto non si è davvero. Dover custodire il segreto dei Secoli passati. Dover combattere contro superstizioni umane. È la dannazione, non il raggiungimento della Perfezione. I Figli vanno scelti con cura. Coloro che hanno un animo predisposto all’adattamento e alla sapienza. Coloro che sono pronti a rinunciare a tutto, senza paura, seppur con riverenza. Coloro che non pongono mai interrogativi, ma sottomettono il loro volere ai più Anziani. Coloro che sono fedeli e che mai mostrano pentimento. Quindi pensateci. Pensateci prima di compiere un passo su un terreno instabile e pregno di dolore, di rabbia, d’insoddisfazione, di vendetta. Questa è la Condanna più grande che Dio potesse dare."

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SCRITTURA COME TERAPIA 
di Roberta Andres

Già nei primi anni di vita la parola è il tramite con cui comunicare le emozioni, le paure; poi andando avanti con l'età diventa anche il modo per  comunicare con ordine, in maniera logica e razionale. La parola è alla base della comunicazione tra individui, dalla prima comunicazione (quella appunto tra la madre e il bambino) a quella degli amici o degli amanti che si dicono l'un l'altro quello che sentono.
Le  più antiche forme di narrazione, quelle orali, non erano espressione di personalità particolari, di veri e propri artisti. Chiunque raccontava: i sacerdoti ai fedeli, le madri ai figli, i nonni ai nipoti. Persone qualsiasi che avevano avuto in dono racconti, nenie, preghiere, filastrocche, e le trasmettevano alle generazioni successive. Il racconto, la narrazione, esistevano   prima in forma orale, ma si dovette aspettare  la scrittura  perché il racconto trovasse una forma  più duratura e più stabile della mnemonica narrazione fatta dagli anziani ai più giovani delle comunità; narrazione che prima fu la semplice stesura di quanto tramandato dagli aedi,  poi solo col tempo divenne  l' espressione individuale di un artista.

 Dalla parola quindi solo in un secondo momento nasce la scrittura, che è il tentativo di ripristinare una presenza, di riattualizzare qualcosa che ora manca, colmare l'assenza della voce continuando a  parlare mediante le parole scritte. La scrittura quindi ha molte funzioni tra cui quella di individuazione, cioè la generazione di una forte consapevolezza di noi stessi, perché tramite essa, nel momento in cui ci esprimiamo, noi  rendiamo consapevoli gli altri ma ancora prima noi stessi di quel che proviamo.   Nelle situazioni in cui non siamo consapevoli ma sentiamo di provare qualcosa di poco chiaro, di confuso, scrivere spesso ci fa trovare le parole per esprimerci e ci chiarisce  sentimenti, incertezze, ambivalenze dentro di noi. (“per esprimere la propria voce ci vuole chiarezza interiore, o una gran confusione che si chiarisce nella scrittura...” Francesco Piccolo).  E quando siamo bloccati da angosce, nevrosi, sentimenti che non riusciamo a tirar fuori magari solo perché ce ne vergogniamo o perché temiamo possano non piacere agli altri, essa può assumere un valore addirittura terapeutico. Se ci si libera da paura rigidità rabbia, può venire alla coscienza un'azione, un'emozione, un'immagine che si è registrata anche molto tempo prima ed è rimasta in noi. In questo senso può essere importante ad esempio tenere un diario. La scrittura è dentro di noi, basta liberare le associazioni mentali, affrontare le nostre ossessioni.
 Circa la valenza terapeutica c'è chi ha studiato con metodologie scientifiche gli effetti benefici della scrittura: a partire dagli anni Ottanta James Pennebaker, docente alla Facoltà di Austin in Texas ha  rilevato, con una ricerca durata circa venti anni, le ricadute positive non solo psicologiche ma anche fisiologiche, immunologiche, ecc., misurabili oggettivamente, che i pazienti avevano scrivendo dei propri sentimenti ed eventuali traumi; c’è chi ha ideato (vedi Guarire con la scrittura di Revault)  un metodo  basato sulla scrittura come ascolto di sé stessi, individuazione, autorizzazione a scrivere, metodo di liberazione di sé stessi:  la scrittura primitiva, la scrittura-follia che parte dalle parole per noi importanti e arriva al flusso di coscienza; la lettera simbolica, scritta a qualcuno che ci ha fatto soffrire o che al contrario ci ha dato affetto o amore, il racconto di ricordi lontani, ecc.  
Senza arrivare ai casi in cui la scrittura è stata usata come terapia anche con psicotici più o meno gravi (vedi: “Quel drago sconfitto”, Governali, Nicotra, che tratta dell'esperienza fatta a Catania con pazienti in cura al reparto psichiatrico della AUSL), mediante la scrittura possiamo senza dubbio  dare spazio all'immaginazione, riprendere contatto con parti di noi dimenticate o rimosse, ascoltare e sentirsi ascoltati, accettare e conoscere l'altro: scrivere per relazionarci agli altri è importante per tutti, non solo  per lo scrittore che scrive  per pubblicare. Si scrive allora  per liberare le emozioni che ci neghiamo, i ricordi dimenticati, le paure che abbiamo. 
Secondo Oliver Saks  un uomo normale è quello che vive la sua vita come  un racconto in divenire. Ogni volta che perdiamo questa capacità di raccontare noi stessi, la nostra vita, quello che abbiamo dentro, ci siamo scompensati.  E' compito dell'operatore di scrittura “terapeutica” e di chiunque scriva per esprimersi,  riconoscere la vitalità delle parole che nascono accettandone anche la “coraggiosa e preziosa imperfezione”; anche se quello che mettiamo sulla carta non è grammaticalmente  perfetto o elegante come la prosa o i versi uno scrittore, è importante per noi e per gli altri che ci circondano.

Dalla scrittura viene infine l'espressione artistica: se è indubbio che esista una creatività ordinaria, che ognuno di noi possiede, può utilizzare,  forse il punto estremo di questa ideale e progressiva linea comunicativa è la creatività straordinaria, quella dei grandi geni dell'umanità, individui che hanno sapientemente unito in sé la libertà creativa e la capacità tecnica.





Un articolo sovrappeso
di Manuela Leonessa

Fine Luglio, tempo di mare e di bikini per molte, ma non per tutte. 
Tante si sono ritrovate di fronte allo specchio con il conto alla rovescia ormai esaurito. A Marzo ci eravamo dette: “Ho 4 mesi di tempo, riuscirò ben a perdere due chili al mese, no? Fanno otto chili. Perfetto!”
E invece a fine luglio ci ritroviamo con i chili ancora tutti lì. Come è potuto accadere?
Torniamo indietro nel tempo. Torniamo a Marzo. Se va bene abbiamo esattamente il peso che avevamo a marzo dell’anno prima; se va male anche un paio di chili in più. Ma siamo sicure che stavolta ce la faremo. Non abbiamo nessun elemento che avvalori la nostra tesi, ma non importa: volere è potere e noi, ardentemente, vogliamo.
Così ce lo diciamo e ce lo ripetiamo: “Da adesso sono a dieta.” 
Dieta, una parola bellissima. Cinque lettere che racchiudono il segreto della perfezione, il mistero dell’eterna giovinezza. Perché è ovvio, nel delirio perfezionista evocato dalla nostra aspirazione, il giorno che finalmente saremo magre saremo anche inspiegabilmente belle. E giovani. 
Decidiamo per una dieta drastica. Chi ben comincia è a metà dell’opera. Se si rivelerà troppo dura potremo correggere il tiro cammin facendo. L’importante è che i risultati si vedano in fretta. Questo ci servirà da incoraggiamento. Del resto che ci vuole? Basta non mangiare.
Di tutto quello che può accadere tra un frugale pasto e l’altro non ci preoccupiamo. Attacchi di fame, voglia smodata di cibi proibiti, debolezza e la languida nostalgia per l’atto del masticare, sono tutti aspetti che neanche consideriamo. Di fronte a noi c’è solo il prendisole comprato l’anno scorso, quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere, perché ci faceva assomigliare a una mongolfiera. Oggi gli abbiamo tolto l’etichetta perché quest’anno lo indosseremo, è una certezza.
Così pranziamo con uno yogurt magro, camminando a passo leggero per la cucina, come la modella della pubblicità. Visto? E che ci vuole? Ci tastiamo con consapevolezza l’addome. Mica ci aspettavamo che fosse già sparito... ma sparirà.
All’una e mezza ci concediamo anche una pesca. Del resto uno yogurt è davvero troppo poco, mica voglio fare come quelle incompetenti che perdono sette chili in un mese e ne recuperano nove quello successivo! Già che ci sono addento anche una fetta di pane, tanto è integrale.
La giornata si avvia verso la sera. Mi sento già una persona nuova, ma il primo ostacolo si staglia impietoso sul mio cammino: la cena.
Cosa preparo per cena? Pensavo di mangiarmi un’insalatina scondita. Ma cosa darò da mangiare ai miei figli? E a mio marito? Mica si accontenteranno di un po’ di erba nel piatto, e hanno ragione, quella a dieta sono solo io.
Così mi accingo a preparare per loro un vero pasto. Tolgo dal frigo tutto quanto c’è di buono. Che piacere tenere in mano quelle leccornie. Tolgo dal suo involucro il prosciutto aspirandone con autentico amore il profumo. Grattugio il parmigiano contemplando i riccioli di formaggio che si adagiano nel piatto con grazia. Affetto le zucchine, sono perfette nella loro fragranza.  Odo il cric della scorza ad ogni affondo di coltello. Preparo il piatto di zucchine al forno con un entusiasmo fino ad ora sconosciuto, al punto che sbaglio le dosi e devo contenerlo nella teglia più grande,  quella per gli ospiti. Ma sono fiera di me, sono convinta che sarà buonissimo.
A tavola guardo con orgoglio il mio piatto di insalata quasi scondita. Quasi. Un cucchiaino di olio extravergine di oliva è sempre concesso.
Intanto servo porzioni abbondanti di zucchine al forno ai miei cari.
La fame urla nello stomaco. L’aria mi riempie la pancia peggio della ricotta in un cannolo ripieno. Cavolo, produco solo paragoni culinari, il cibo mi riempie la testa. Che diamine, una fettina di zucchine al forno che sarà mai! Decido di essermela guadagnata, così me ne prendo una fetta. Non esageriamo, mezza. 
Il pasto è una festa, un’apoteosi di complimenti meritati, soprattutto perché ho cucinato per tutti tranne che per me.
Finita la cena mio marito si chiude in bagno e i miei figli in camera.
Resto da sola con i piatti da lavare. Le zucchine al forno sono state un trionfo, ma ne resta ancora una fetta enorme nella teglia. A casa mia non si butta via niente, ma le dimensioni di quella fetta non equivalgono a nessun modello standard. Troppo grande per essere considerata una porzione, troppo piccola per due. L’azione anticipa il pensiero e mi ritrovo a divorala a cucchiaiate. È un momento di pura gioia.
Il mio stomaco si sintonizza sul mio entusiasmo e più veloce di un pensiero ultimo, si gonfia. Dolorosamente mi riscuoto.
“Sono una fallita.”
Non mi rendo neanche conto di averlo pensato, ma lo accetto come incontrovertibilmente vero.
Ma ragioniamo. Mi ritengo una fallita e ho solo mangiato una fetta di torta alla zucchina.
Sono davvero una fallita o erano le mie pretese ad essere sovradimensionate?
Un barattolino di yogurt e una insalatina. Siamo realistici, avrebbero dovuto chiudermi in bagno e buttare via la chiave per impedirmi di mangiare quella fetta. Più che fallita direi che ero affamata.
Ma le diete richiedono il prezzo di un po’ di fame; se non sono in grado di resistere non riuscirò mai a dimagrire.
E chi l’ha detto che non riuscirò mai a resistere? Forse si tratta di correggere un po’ il tiro, forse si tratta solo di imparare a conoscere e prevedere meglio le mie reazioni. 
D’accordo, ho mangiato una fetta di torta alla zucchina, e allora? È solo sulla base di questo sgarro che ho deciso di non essere in grado di affrontare una dieta?
Ho altre evidenze che sostengono questa affermazione? No?
Francamente, allora, direi che ho pochi elementi per sostenere la mia teoria.
Ma torniamo alla fetta di zucchina e al fatto di considerarmi una fallita. 
Proviamo a pensare a quale conclusione sarei giunta se, mangiando quella fetta, non fossi stata a dieta. Probabilmente alla conclusione che sono un' ottima cuoca.
Invece no, mi colpevolizzo, innescando tutta una serie di pensieri che avranno il solo risultato di minare la mia determinazione: “È tutto inutile, lasciamo perdere.”
Oppure: “Potrei andare da un dietologo, ma tanto so che mio marito non è d’accordo, è convinto che sarebbero soldi buttati via.” 
Questa convinzione non si sa bene da dove salti fuori, visto che a vostro marito non avete mai chiesto nulla e non avete ancora imparato a leggergli nel pensiero.
Questi, come altri, sono tutti pensieri distorti, privi di alcuna logica, che ci facciamo girare nella testa continuamente. Automaticamente. E che accettiamo sempre, passivamente, per veri.
Proviamo ad ascoltarci ogni qual volta ci investe un’emozione; proviamo a scoprire il pensiero  che l’ha generata. E non venite a dirmi che non c’è stato nessun pensiero: un’emozione scaturisce sempre da un pensiero.

E quando avremo imparato ad ascoltare questi pensieri potremo analizzarli, scoprire quanto sono illogici e se diventeremo veramente brave potremo modificarli. Allora la vita sarà più semplice. E le diete pure.

****


(ovvero, della cellulare - addiction)-  Di Manuela Leonessa


Oggi è il compleanno di mia figlia, compie 17 anni, si chiama Iside ed è bellissima.
Mia suocera le ha regalato un cellulare.
Che bello, un cellulare. Proprio un regalo adatto a una diciassettenne, direte voi, peccato che sia il quinto.
Una suocera è pur sempre una suocera, è insito nella natura umana tollerarla a malapena, e mi piacerebbe scagliarmi contro la sua inettitudine pensando che, almeno nella scelta dei regali di compleanno,  sia una perfetta cretina, ma non posso. Perché Iside l’ha tormentata per mesi, convincendola della necessità di un nuovo cellulare.
 Mia suocera ha la passione dei profumi e dei bagnoschiuma d’autore. Avrebbe tanto voluto regalare a sua nipote un profumo con annessa cintura firmata. Una confezione elegante di quelle che lei definisce perfette per una vera signorina. Ma a mia figlia non interessa molto diventare una vera signorina, preferisce avere cinque cellulari, e l’ha spiegato a sua nonna senza troppi giri di parole.
Da piccola, Iside non la nonna, aveva una carrellata di Barbie che non finiva più. Le allineava sul letto ognuna con il proprio nome. Nomi terribili tratti dalle telenovelas. Noi non guardiamo le telenovelas, ma mia suocera sì. Forse è per questo che crede ancora al concetto di vera signorina. Ad ogni modo erano 11 Barbie(sette, ovviamente, gliele aveva regalate lei) ognuna con un nome da spavento e tutte ugualmente indispensabili. Una faceva la maestra, abitava in una casa sull’angolo destro della testata del letto a cui si accedeva scavalcando un recinto fatto con i pennarelli  Jumbo della Carioca, la seconda aveva il negozio di panetteria proprio al centro del letto. La panetteria era  fondamentale, perché le figlie delle Barbie (niente figli maschi naturalmente) dovevano comprarsi la pizza tutte le mattine prima di andare a scuola. Le altre nove avevano ruoli altrettanto importanti ma possiamo evitarceli. Era solo per darvi un’idea.
Non voglio dire che i  telefonini siano come le Barbie, ma per Iside, sono tutti, ugualmente, indispensabili.
Il giorno del suo compleanno, suo padre e io, le abbiamo regalato l’abbonamento al teatro Stabile. Lei lo ha accolto con giubilo eccessivo  prima di metterlo da parte in fretta. A quel punto si è concentrata con felina determinazione sul pacco che per forma e dimensioni doveva contenere il nuovo cellulare.  Lo ha aperto con materna sollecitudine, lo ha preso in mano con affetto antropomorfizzato. Al nostro abbonamento già non pensava più, ma il fatto che si sia dimenticata di ringraziare la suocera ha mitigato un po’ la mia delusione.
Comunque: il primo telefonino lo usa per  le compagne di scuola, il secondo lo utilizza principalmente per giocare e connettersi a Internet. Col  terzo cellulare comunica con gli amici che esulano dalla scuola, il quarto lo usa per lavoro (studia all’alberghiero, ha contatti con diversi ristoranti che la chiamano ad ore soprattutto in occasione di matrimoni e feste). Mancava solo il cellulare per comunicare con noi.
Ci siamo sempre lamentati delle difficoltà che incontriamo per metterci in contatto con nostra figlia, perché pur avendo quattro cellulari in tasca, non ci chiama mai. Iside ha una mentalità da ragioniera, pianifica i costi e le spese necessarie per mantenere attive le quattro linee telefoniche sulla base delle sue disponibilità finanziarie. In questo piano noi non siamo contemplati. Se deve fare tardi, se decide di fermarsi a cena, fuori casa, lo faa e basta. Quando la giusta ansia genitoriale arriva al parossismo chiamiamo noi. Inutile dire delle litigate, le sue motivazioni sono inattaccabili, almeno dal suo punto di vista. Il nostro conta poco.
Così  il quinto telefonino l’ha voluto per  noi, di cosa ci lamentiamo?
Io infatti non mi lamento. Mi preoccupo.
Se bere un bicchiere di vino ogni tanto è salutare, ma scolarsi una bottiglia a pasto è etilismo, se comprare un Gratta e Vinci ogni tanto è una coccola, ma giocare a costo della bancarotta è dipendenza, allora mi chiedo se avere cinque cellulari, quando uno basta e avanza non sia argomento sufficiente da attivare la mia allerta.
Quanto tempo passa mediamente vostro figlio al telefonino?
Non è per ripetermi, ma mia figlia di telefonini adesso ne ha cinque, e dal momento che è cresciuta nutrita dai sani principi dell’ egualitarismo  e dell’imparzialità, dedica ad ognuno di loro lo stesso tempo. Tra telefonate e SMS, se contiamo sia quelli in entrata che quelli in uscita, credo che superi ogni giorno i 300 contatti. Certo con tutta questa attività cellulare il tempo per studiare resta poco. Il rendimento scolastico infatti ne risente soprattutto per quel che riguarda l’italiano. Ma non è solo una questione di applicazione. Da quando, grazie al quinto telefonino, messaggia anche con noi, ho scoperto in mia figlia un insospettabile dono della sintesi. I suoi messaggi sono più o meno di questo tenore.
“nn vgo  cna. Nn aspti”. Se anche nei temi scrive così, capisco perché la professoressa non è contenta.
Noi non riusciamo a capire mai che cosa vuole dirci, ci accontentiamo di constatare che se ci scrive vuol dire che è ancora viva. Una volta, ho provato a ricambiarla con la stessa moneta e le ho scritto: “mnbgchjyt gdfreti  gdlmnnnuita re?”
Lei ha capito tutto e mi ha risposto immediatamente
“Yes.”
Mia  figlia non parla più,  messaggia.  Anche quando non è sola.
L’altro giorno, per caso, l’ho vista al bar con un’amica,  Se ne stavano sedute a un tavolino, una di fronte all’altra. Non si parlavano, non si guardavano. Erano  entrambe chine sul proprio smartphone  ad agitare selvaggiamente le dita. Si parlavano così.
Certo questo tipo di comunicazione ha i suoi vantaggi. Il telefonino media le relazioni con l’altro, evita il contatto diretto, permettendo di  idealizzare l’amico che,  in questo modo, possiamo immaginare sempre sorridente, sempre gentile. L’amico dall’altra parte del filo (ma non c’è più nemmeno il filo) mi dà sempre ragione, difficile trovare un occasione di litigio. Come faccio a litigare con gli SMS? Mi stanco prima.
E poi mi sono accorta che mia figlia non sa stare senza telefonini accesi.  Con la scusa che qualcuno potrebbe cercarla anche di notte non li spegne neanche quando dorme. E’ un’abitudine che ha i suoi vantaggi dal momento che la sveglia con lei non ha mai funzionato.  Al mattino quando non si vuole alzare, le telefono. Non sul quinto cellulare, quello lo tiene spento, ma io conosco i numeri degli altri quattro.
Però non va bene lo stesso. Iside usa i cellulari come fossero degli ansiolitici, non li spegne mai per non restare sola, per non sentirsi isolata. Il cellulare è diventato per lei il simbolo della presenza dell’altro. Solo che lei di telefonini ne ha cinque, così non sapendo bene a quale altro riferirsi ha fatto prima ad affezionarsi ai telefonini. Se li porta dappertutto come dei  feticci. Se i telefonini sono accesi non si sente sola se sono spenti sì. Mi è venuto il dubbio che i telefonini spenti equivalgano per lei a una condizione di non esistenza.
Mia figlia è cambiata, ma non so come. Come faccio a scoprirlo se non mi parla più?
Ma vi ricordate quando esistevano le cabine telefoniche? Il telefono non era un prolungamento della personalità dell’individuo, men che meno un suo sostituto. C’erano lunghi momenti in cui stavamo soli con noi stessi, e ci annoiavamo.
La noia. Quel meraviglioso vuoto che ci costringeva a guardare in noi stessi.
Oggi i giovani non si annoiano più. Parlo dei giovani, ma per noi adulti è lo stesso. Non siamo più capaci di stare soli. Il cellulare è diventato un compagno totalizzante.
E noi siamo  sempre più isolati.




 "Orgoglio e Pregiudizio" od "Orgoglio e Prevenzione"?

Storia di una traduzione "particolare" 

Jane Austen  (16 dicembre 1775 - 18 luglio 1818), una delle autrici inglesi più famose e conosciute al mondo, iniziò la prima stesura di quello che, inizialmente aveva il titolo di Prime impressioni 
che poi sarebbe diventato Orgoglio  e Pregiudizio,nel 1796. Il romanzo fu terminato nell'agosto del 1797, quando la scrittrice aveva solo 21 anni. L'ultima revisione del testo fu pubblicata, in modo anonimo, nel gennaio del 1813 dall'editore Egerton. Nell'ottobre dello stesso anno, visto il successo ottenuto, fu stampata una seconda edizione e  il romanzo diventò uno dei più venduti dell'epoca. In Italia la prima traduzione risale al 1932 e il titolo fu cambiato in "Orgoglio e Prevenzione". La traduzione fu curata da Giulio Caprin, il quale divenne, successivamente, un punto di riferimento per tutti gli altri traduttori del romanzo. All'epoca il termine "prevenzione"  era inteso come "preconcetto" e, considerato che si era in piena epoca fascista, Caprin ritenne opportuno tradurre "Prejudice" con "Prevenzione" e di italianizzare i nomi dei personaggi. Per questo motivo Elizabeth fu tradotto con Bettina, Jane con Giovanna e via dicendo. Verso la fine degli anni '40, il Governo Italiano diede inizio a un programma di diffusione della cultura; programma che comprendeva anche la creazione di Centri di lettura e di informazione sparsi sul territorio. In questi Centri si trovavano diversi grandi romanzi classici, italiani e stranieri, molti dei quali furono stampati dall'Istituto Poligrafico dello Stato in edizioni economiche e a distribuzione gratuita. Jane Austen fece parte del fondo dei Centri proprio con Orgoglio e Prevenzione. Nel 1959 fu stampata una nuova edizione, preceduta da un'introduzione inedita di Giulio Caprin. Negli anni la traduzione di Caprin è stata spesso ritoccata e non è più quella originale del 1932; i nomi sono stati tradotti nella versione originale e il linguaggio è stato "svecchiato". Qualche giorno fa mi è stata regalata un'antica edizione di "Orgoglio e Prevenzione" e, leggendola, ho finalmente assaporato la versione linguistica originale con la quale Jane Austen fu conosciuta in Italia, e della quale avevo spesso sentito parlare. Curiosando in giro ho verificato che si trovano ancora diverse copie del romanzo ristampato nel 1959 e invito tutto coloro che volessero leggerlo, ad acquistarne una copia, soffermandosi attentamente sull'introduzione di Giulio Caprin.

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Il potere terapeutico delle parole 



di Roberta Andres

Raccontare se stessi con la scrittura significa esplorare i punti nevralgici del nostro vissuto. Di scrittura e di potere terapeutico delle parole si  è parlato poco più di un mese fa a Palazzo dei Priori a Fermo al workshop di scrittura e psicologia: “Il potere terapeutico delle parole, autobiografia e cambiamento”, il 4 giugno scorso. L’iniziativa  è stata promossa dall’associazione culturale EWWA (European Writing Women Association) con sede a Roma e che ha un attivo polo nelle Marche, le cui referenti sono Christina B. Assouad ed Eleonora Vagnoni.
L’evento è stato patrocinato dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Fermo e si è svolto in due sessioni, mattina e pomeriggio, con una discreta partecipazione di addetti ai lavori e non solo.
Il workshop si rivolgeva a tutti coloro che vogliono migliorare l’utilizzo della parola scritta intesa come ricerca su di sé, cura e raggiungimento di una più elevata coscienza di se stessi.
La mattina è trascorsa con le tre relazioni di Maria Teresa Marziali, pedagogista e docente presso la Libera Università di Anghiari; di Roberta Andres, docente di scrittura creativa presso la Facoltà di Psicologia Università “G. D’Annunzio” di Chieti e di Mariella Antognozzi, psicologa, psicoterapeuta e ipnoterapeuta.
La relazione della prof.ssa Marziali ha illustrato il genere autobiografico, strumento necessario per guardarsi dall’alto e “vivere artisticamente”; ne ha ripercorso gli antecedenti letterari e le varie tecniche che possono essere utilizzate per scrivere indagando sé stessi. “L’autobiografia – ha concluso - è il lavoro della mente che si serve della memoria per rivolgersi al passato”
La seconda relazione, su “Gli archetipi della coppia”, ha fatto una carrellata partendo dai miti antichi fino ai personaggi della letteratura moderna, individuando in essi i modelli ricorrenti che rappresentano diverse modalità di attaccamento e che portano i partner a relazioni di complicità, passione tenerezza, ma a volte anche a rapporti conflittuali e manipolatori.
L’ultimo intervento in ordine di tempo lo ha svolto la dott.ssa Mariella Antognozzi, che ha spiegato nella teoria la trance ipnotica e auto ipnotica, l’importanza di essa per liberare le energie volte a scrivere di sé, prima di proporre un esercizio pratico di rilassamento, trance e scrittura, previsto per il pomeriggio.
 I lavori sono poi continuati con la parte laboratoriale, con un interessante  momento dedicato alla trance ipnotica nella scrittura, che   permette di ricostruire il tempo e le memorie in un percorso di lettura e rilettura della vita.
Èseguita poi una riflessione sull’esperienza svolta, in cui gli stessi partecipanti hanno messo in luce e hanno discusso di come scrivere sia fondamentale per imparare a conoscere se stessi, per sapersi prendere cura di sé.
Il racconto retrospettivo che un autore fa di sé, rievocando quei fatti che hanno segnato il suo vissuto e hanno portato allo sviluppo della sua personalità, può essere una pratica positiva per chiunque nel dialogo con se stesso anche al di fuori dell’esperienza di scrittura volta alla pubblicazione o alla condivisione con gli altri.




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