lunedì 22 giugno 2015

Racconti brevi


MALEDETTA SERA D'ESTATE
di Annamaria Marconicchio




Si svegliò con la testa che gli doleva. Provò ad alzarsi, ma dovette sedersi nuovamente sul letto per un improvviso capogiro. Rimase lì seduto per un po’, la testa fra le mani, mentre il ricordo della sera precedente prendeva forma nei suoi pensieri. Momenti confusi gli affollavano la mente e ogni sforzo per ricordare ciò che era accaduto era inutile.
Giulio aveva proposto di festeggiare la loro ultima sera di vacanza in quel campo di hippie. Avevano ballato, cantato e si erano divertiti tanto. A quel punto, però, i suoi ricordi si confondevano: aveva bevuto, fumato, e quelle sigarette avevano uno strano sapore dolciastro. Poi, c’era stata quella ragazza. Ne rivedeva il viso, dolce e infantile, e lo sguardo strano. Ricordava che lo aveva abbracciato. Forse aveva fatto l’amore con lei? Proprio non ricordava, ma tutto quanto, oltre a provocargli un violento malessere fisico, sembrava lo avesse profondamente sconvolto.
Finalmente, riuscì ad alzarsi e cominciò a preparare la valigia, ficcandoci dentro alla rinfusa tutte le sue cose. Le vacanze erano finite e avevano deciso di partire presto per evitare il traffico del rientro in autostrada.
Appena pronto, raggiunse i suoi amici che stavano già facendo colazione, ma la sola vista del cibo gli procurò un profondo senso di nausea.
“Mangia qualcosa!” lo invitò Giulio, l’organizzatore di quella pazza vacanza “Non è salutare mettersi in viaggio a stomaco vuoto.”
Marco scosse la testa.
“Non posso.” disse con voce quasi impercettibile “ Ho lo stomaco a pezzi.”
Una nuova ondata di nausea lo colse e stavolta dovette scappar via per non vomitare sul tavolo.
Si ritrovarono mezz’ora dopo, già pronti per partire. Marco era pallidissimo e la sua aria stravolta non sfuggì agli amici, che proposero di rimandare la partenza.
“Possiamo trattenerci anche stanotte” propose Giulio “ e domattina…”
“No!” quasi gridò Marco, suscitando la sorpresa degli altri ragazzi, poi con voce più tranquilla continuò: “Preferisco andare via subito. Non datevi pena per me. Sto bene.”
Nessuno osò più contraddirlo e un attimo dopo erano già in viaggio.
L’auto correva incontro a un paesaggio che sfilava mutevole davanti ai loro occhi. Marco vedeva solo una fitta nebbia, in mezzo alla quale ogni tanto prendeva forma un viso allucinato, mentre nelle sue orecchie continuava a echeggiare il frastuono di una musica in crescendo. Si tappò le orecchie con le mani e chinò il capo in avanti, come a cancellare tutto. Il suo gesto non sfuggì a Gianni, che gli sedeva accanto.
“Marco!” lo chiamò piano, posandogli una mano sulla spalla “Che cos’hai? Stai male? Vuoi che ci fermiamo?”
Marco si scosse, come se si fosse svegliato da un sogno. Tentò di sorridere all’amico.
“Non è niente. E’ già passato. Sono solo molto stanco.”
Gianni lo fissò per qualche secondo.
“Non è stato molto bello ieri sera, vero?”
Marco scosse il capo, sorridendo tristemente.
“No,” ammise “ma lo dimenticheremo… almeno spero.”
Giunsero in città nel primo pomeriggio. Le strade erano deserte e il caldo afoso era opprimente.
“Scendo qua.” annunciò improvvisamente Marco, toccando sulla spalla di Giulio che era al volante. Dallo specchietto retrovisore, l’amico gli lanciò un’occhiata sbalordita.
“Vuoi andare a piedi da qui fino a casa? Tu sei proprio pazzo! Con questo caldo…”
“Preferisco camminare un po’. Dai ferma!”
Marco scese dall’auto, poi, abbassandosi verso il finestrino, salutò gli amici: “Allora ci sentiamo domani…”
“Ti chiamo io.” disse Gianni “Magari si organizza qualcosa insieme.”
Si salutarono e Marco si avviò lentamente verso casa, trascinandosi dietro il suo trolley.
Ancora una volta, rivisse quei momenti che tanto l’avevano sconvolto. L’ossessionava il viso allucinato di una ragazza: non doveva avere più di diciassette anni, ma era già sprofondata nel baratro della droga. Che speranze aveva di uscirne? Che vita sarebbe stata la sua?
Il caldo era veramente terribile e Marco si sentiva in un bagno di sudore. Il rumore delle ruote del trolley che cigolavano sull’asfalto cominciò a innervosirlo.
“Sono stato davvero un pazzo a pensare di fare tutta questa strada a piedi!” si disse e, intanto, un nuovo turbinio di pensieri lo assalì.
Ciò che ricordava era la realtà o era solo il frutto di una fantasia allucinata? Aveva bevuto, fumato, e poi?...
“Basta! Non voglio più pensare a ieri sera, altrimenti impazzisco.” mormorò, passandosi una mano sulla fronte madida di sudore.
Era arrivato davanti al portone di casa. Si fermò, esausto. L’afa gli toglieva il respiro e i vestiti umidi gli s’incollavano fastidiosamente addosso.
“Ciao, Marco!”
Si voltò, mentre il suono allegro di quella voce lo riportava alla realtà. Fu come se un’improvvisa frescura fosse scesa sulla città e Marco si trovò a stringere la mano di una ragazza dal viso dolcissimo, che lo guardava con adorazione.
“Ciao, Mariana!”
Un brivido gli corse lungo la schiena, forse per il sudore che cominciava ad asciugarsi.
“Quando sei arrivato?”
“In questo istante. Sei la prima persona che incontro.”
Si accorse di tenerle ancora la mano e la lasciò a malincuore.
“Allora ti lascio libero. Sarai stanco.”
“Un po’, lo ammetto. Ho bisogno di una doccia e di un’oretta di sonno, ma dopo, se ti va, si potrebbe uscire insieme.”
Mariana lo guardò sorpresa, annuendo, e mentre si salutavano pensò che Marco volesse prendersi gioco di lei.
Mentre, sdraiato sul letto, cercava un po’ di rilassarsi, Marco ripensò all’incontro con Mariana, quasi seccato di averle chiesto di uscire insieme.
Mariana aveva vent’anni, quattro meno di lui, e non gli aveva mai nascosto l’amore che provava per lui.
Marco la considerava poco meno di un’amica e gli dava quasi fastidio quell’adorazione che le leggeva negli occhi ogni qualvolta la incontrava.
Stranamente, invece, quando l’aveva incontrata quel pomeriggio, aveva provato piacere. Era stato come se, dopo aver attraversato il deserto, si fosse trovato davanti ad una sorgente di acque limpide e fresche. Le parole gli erano uscite spontanee: in quel momento desiderava davvero uscire con lei.
Si diede dello stupido.
Sono ancora confuso. Non so neppure io cosa faccio e dico. Starò meglio dopo essermi riposato un po’. Mi spiace solo di aver illuso quella ragazza.
Si svegliò un’ora dopo e fu felice di sentirsi completamente rilassato. Raggiunse la madre in cucina e rimase a chiacchierare con lei per un pezzo.
“Ceni a casa, stasera?” gli chiese a un tratto sua madre.
“Non lo so. Esco con Mariana…”
La madre lo guardò sorpresa, mentre lui prese a giocare nervosamente con un cucchiaino.
“Ma tu stai tremando!”
La madre gli si avvicinò preoccupata. Non gli era sfuggito l’improvviso nervosismo del figlio e non sapeva trovare una spiegazione.
“Non è niente.” disse Marco, passandosi una mano tra i capelli. Si alzò e, avviandosi verso il telefono per chiamare la ragazza, aggiunse: “E’ strano, ma improvvisamente sento il bisogno di vedere Mariana.”
Quella sera uscirono insieme e così pure quelle che seguirono.
Mariana era una ragazza pulita, sincera, sempre dolce e comprensiva. E Marco s’innamorò di quella ragazza meravigliosa che aveva il nome della Madonna e, come una Madonna, accettava tranquilla i suoi improvvisi silenzi, i suoi sfoghi apparentemente senza senso. Mariana comprendeva, pur senza meglio capire, che Marco aveva vissuto una brutta esperienza, ma non faceva domande, restandogli accanto per coccolarlo e rassicurarlo, finché lui, calmatosi, riprendeva a sorriderle.
Il tempo trascorreva veloce, Erano trascorsi sette mesi e il ricordo di quella vacanza sembrava ormai sbiadito. Marco parlò per la prima volta di matrimonio.
“Che ne diresti di sposarci a settembre’” propose una sera.
Mariana lo guardò con gli occhi sgranati.
“Marco! Ma settembre è fra solo sei mesi…”
Il ragazzo rise.
“Basteranno. Devi solo dirmi di sì.” E la baciò con dolcezza.
Sul tavolo, c’era un quotidiano locale che attirò l’attenzione di Mariana, che prese a sfogliarlo, come a cercare qualcosa.
“Hai letto di quella ragazza morta dando alla luce un bambino?” chiese a Marco “Diciassette anni, tossicodipendente… ecco leggi qui.” E gli avvicinò il giornale.
Mentre lei parlava, Marco era impallidito e il suo cuore aveva preso a battere forte. Lesse velocemente l’articolo: una giovane tossicodipendente moriva nel dare alla luce un bambino, il quale, nato prematuro, non riusciva a vivere che poche ore.
Una foto ritraeva la ragazza e Marco riconobbe quel viso dolce e quello sguardo strano che tanto a lungo lo avevano tormentato.
La pagina del giornale si confuse sotto e suoi occhi, mentre una morsa gli serrava lo stomaco.
“Dio mio!” mormorò, prendendosi il volto tra le mani, e solo allora Mariana si accorsa di quanto fosse sconvolto.
“Marco!” lo chiamò “Che cosa succede? Stai male? La conoscevi, forse?”
Marco annuì e alzò su di lei uno sguardo spaventato.
“Non è stata colpa mia! Credimi, non è stata colpa mia!”
Mariana lo abbracciò forte.
“Certo che non è stata colpa tua. “ lo rassicurò, mente lo sentiva tremare violentemente, e intanto si chiedeva cosa potesse avere Marco in comune con quella ragazza.
Marco si liberò del suo abbraccio e si alzò. Fece qualche passo, poi tornò a sedersi.
“E’ tutta colpa mia!” mormorò ancora una volta, poi, rivolto a Mariana, continuò “Non posso ignorarlo: è come se l’avessi uccisa io.”
Era isterico e Mariana lo capì da quelle frasi insensate, dallo sguardo febbricitante, da quel violento tremore che si era impadronito del corpo di Marco, dal respiro affannoso del ragazzo.
Ebbe paura, ma cercò di restare calma, Continuò a parlare con dolcezza, cercando di rassicurare Marco, e dopo dieci lunghissimi minuti, vide il ragazzo calmarsi.
Più tardi, Marco le raccontò di quella sera o , almeno, di ciò che ricordava.
“Potrei aver fatto l’amore con quella ragazza “concluse “ e, se fosse davvero successo, il bambino era mio… e lei è morta nel partorirlo… prematuro… ed io l’ho conosciuta sette mesi fa.”
Mariana gli posò un dito sulle labbra per farlo tacere. Marco si stava agitando di nuovo e lei non voleva vederlo soffrire.
“Calmati!” gli disse “ Se anche fosse vero ciò che tu dici, e non ne sei certo, quanti altri quelle notte, in quei giorni , saranno stati con lei? pensaci: se avessi fatto qualcosa con lei, ricorderesti qualcosa.”
Marco scosse il capo, dubbioso.
Anche Mariana si rendeva conto benissimo che Marco non avrebbe potuto ricordare niente. La droga che gli avevano fatto fumare lo aveva stordito e quasi certamente era finito a letto con quella ragazza. Ma questo non poteva dirlo a Marco, perché sarebbe stato come pugnalarlo alle spalle.
Le aveva fatto male sentire quella storia, ma non poteva ignorare l’angoscia del ragazzo che amava, i suoi occhi spaventati nel volto pallidissimo. Lo amava troppo e le fu facile accantonare tutta la vicenda.
Per Marco, invece, i giorni che seguirono furono molto duri. Lui non riusciva a dimenticare e continuava a sentirsi colpevole. Decise persino di rinunciare a Mariana, poiché si sentiva sporco, diceva, mentre lei era pura come il nome che portava.
“Non ti libererai di me così facilmente.” ripeteva Mariana, accarezzandogli il viso “Settembre è vicino.”
Con il suo aiuto, Marco riuscì a dimenticare quella sera per la seconda volta, forse per sempre.
E arrivò settembre.
“Non avrei mai creduto di essere così emozionato!” aveva detto Marco, mentre sua madre gli sistemava la cravatta che le sue mani tremanti avevano annodato tanto maldestramente.
Quando Mariana entrò in chiesa, tanto bella e dolce, simile a una nuvola bianca, il ragazzo si sentì mancare per la felicità e la commozione gli serrò la gola.
Furono mesi bellissimi quelli che seguirono e la loro felicità raggiunse l’apice quando Mariana si accorse di aspettare un bambino.
“Spero ti somigli.” diceva Marco, mentre le posava una mano sul ventre con infinita tenerezza, e si convinceva sempre di più che non avrebbe potuto vivere senza di lei.
Ma tanta felicità non poteva durare.
Mariana era al quinto mese di gravidanza quando si ammalò. Sembrava una banale influenza, ma si rivelò ben presto qualcosa di molto più grave. Fu ricoverata in ospedale, dove, dopo inutili cure, fu sottoposta a una serie di esami che avrebbero dovuto chiarire il problema.
Marco trascorreva con lei tutto il tempo che gli lasciava libero il lavoro e si sentiva impazzire all’idea di non poter fare nulla per alleviare il suo male.
Mariana, pur sentendosi, sempre più debole, sorrideva.
“Peccato!” diceva “Appena starò bene, smetterai di coccolarmi.”
“Rimettiti presto ed io ti giuro che ti coccolerò in eterno.” rispondeva Marco e le accarezzava delicatamente il viso smagrito.
Marco, però, era sfiduciato. Dagli sguardi che vedeva correre tra i medici e le infermiere, capiva che non c’era da sperare nulla di buono.
Un pomeriggio fu convocato dal primario e il ragazzo si recò nel suo studio accompagnato da sua madre e dai familiari di Mariana.
In piedi, davanti alla scrivania del medico, ascoltò in silenzio la voce dal tono professionale che spiegava: un male incurabile, il male del secolo...
AIDS!
Quella parola vibrò come un’eco nelle sue orecchie e lui restò lì, inebetito, incosciente di quanto gli accadeva intorno.
AIDS…
Quel termine martellava le sue orecchie, come amplificato, e, all’improvviso, ricordò: una sera di vacanza, una ragazza dallo sguardo strano che gli si avvicinava e lo abbracciava. Marco, ebbro di vino e stordito da qualcosa che aveva fumato, non si opponeva e finivano per fare l’amore. Poi la ragazza era scomparsa e lui era rimasto a guardare le stelle, che sembravano girare vorticosamente sopra di lui, mentre lo assaliva un acuto senso di nausea.
Qualcosa, improvvisamente, si spezzò dentro di lui. Sentì che stava per svenire e si accorse che qualcuno lo trascinava via.
Quando riprese coscienza di sé, era nella sala di attesa dell’ospedale. Tutti quelli che erano con lui avevano gli occhi rossi di pianto; lo guardavano, ma nessuno osava parlare.
Marco si fece forza, si alzò.
“Vado da Mariana.” disse.
La madre gli posò una mano sul braccio, come per fermarlo, ma lui la spostò delicatamente.
“Sta’ tranquilla!” sussurrò “Le voglio bene!”
Da quel momento, Marco non lasciò più l’ospedale. Giorno e notte, ogni istante della sua vita, erano trascorsi in quella stanzetta d’ospedale, dove vedeva consumarsi la donna che amava e sfuggirgli di mano la sua stessa vita.
Trascorsero così quindici giorni. Marco era stremato, ma non avrebbe mai spezzato quell’ultimo delicato filo che lo univa a Mariana e alla loro creatura. Fu Mariana a farlo per lui, lasciandolo una notte, in silenzio, un silenzio che fu rotto solo da un grido straziato e dal pianto disperato e sommesso del ragazzo che aveva assistito impotente alla sua morte.
Privo ormai di forze, Marco si lasciò portar via senza opporsi; niente ormai gli avrebbe ridato il suo amore.
I funerali si fecero il giorno successivo; un cielo cuoi di pioggia fu giusto scenario di quella giornata.
Quando tutti lasciarono il cimitero, Marco volle restare ancora lì e stavolta nessuno riuscì a portarlo via.
Un’ora dopo, era ancora là seduto ai piedi della tomba, la testa china, una mano poggiata sulla terra fredda.
A un tratto, si sentì sfiorare una spalla. Alzò lentamente il capo e posò i suoi occhi sul volto di un uomo di mezza età, dallo sguardo comprensivo.
“Adesso devi andare via. “gli stava dicendo “Devo chiudere.”
Marco sembrò non capire. Abbassò nuovamente gli occhi sulla tomba, poi tornò a guardare l’uomo.
“Lì sotto ci sono mia moglie e mio figlio.” disse e, sul viso pallido, i suoi occhi erano due laghi di disperazione.
“Lo sa, “fece l’uomo “ma non può restare qui. Venga!”
Gli aveva teso la mano e, dopo qualche istante d’indecisione, Marco gliela strinse e accettò che lo aiutasse ad alzarsi. Mentre usciva dalla congrega, Marco si voltò un’ultima volta verso la tomba e si fece forza per non piangere ancora.
“Venga!” insistette l’uomo “Li lasci dormire tranquilli.”
E, cintolo per le spalle, lo accompagnò fino all’uscita del cimitero.
“Grazie!” mormorò Marco e s’incamminò lentamente, la testa china.
Il guardiano lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava. Gli aveva fatto tanta pena quel ragazzo, l’ombra di un uomo che aveva perso la propria vita.
“Dimenticherà. ” si disse “E’ giovane; riprenderà a vivere.”
Intanto, mentre camminava curvo sotto il peso di tanto dolore, Marco pensò che mai avrebbe dimenticato.
Cominciò a piovere, Marco sembrò non accorgersene. Vagava senza meta e le lacrime ripresero a scivolare sul suo viso.
La sua vita era finita quella notte, la sua anima era rimasta con Mariana.
Una parola gli tornò in mente: sieropositivo. Così lo avevano definito i medici. Forse lui sarebbe vissuto, ma da solo, come un cane, portandosi dietro il peso della sua coscienza che lo avrebbe tormentato per sempre, a causa di quella maledetta, incosciente sera d’estate.

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