mercoledì 3 giugno 2015


Angel - racconto breve -

Stasera, prima di entrare in teatro, attraverso il cancello che cela la porta destinata agli artisti, ho guardato l’enorme cartellone all’ingresso. Ci sono io in quella foto. E’ un manifesto di circa sei metri per tre e troneggia sulle colonne di marmo, in stile dorico. In questo teatro una volta si rappresentavano solo commedie serie; ora no. Ora la crisi non permette più di badare   a queste sottigliezze. Ora si deve guadagnare. L’affitto dei locali costa un capitale e l’impresario non ha tempo per pensare a queste cose. Il mio spettacolo vende bene. La gente accorre ogni settimana, incuriosita dal passaparola, dai commenti degli spettatori che l’ha preceduta.La mia immagine patinata è perfetta, molto diversa da quella che, adesso, vedo riflessa attraverso uno specchio illuminato dai neon che lo circondano. La luce deve essere implacabile e accecante, in modo che io riesca a truccarmi in maniera impeccabile.Mi guardo la bocca, la linea del naso, le sopraciglia appena depilate, e poi gli occhi, di uno strano color verde marcio; occhi perennemente tristi. Non riescono a perdere quell’espressione nemmeno adesso che, in un certo senso, ho conquistato il mio posto in questa società. Sorrido con ironia alla mia immagine e scelgo una matita color argento. E’ un colore che fa risaltare  perfettamente i miei colori. I capelli, lunghi e biondi, saranno presto nascosti dalla parrucca rosso rame, che fa, di me, la regina della serata.Rosso e argento. L’argento esalta il verde dell’iride e, mentre sottolineo la linea della palpebra, la evidenzio ancora più del solito, come se volessi rimarcare, con quel tratto, la mia fisicità, che è sempre stata la mia dannazione. Fra un po’ il mio agente busserà con insistenza alla porta del camerino ed entrerà, senza attendere la mia risposta. Si fermerà sull’uscio e scuoterà la testa, guardandomi con rimprovero.“Ancora accusì stai?” Mi dirà, con quel suo strano modo di parlare.  Non ho mai capito di quale parte dell’Italia sia. Ha decine di frasi che usa a effetto. Ogni frase appartiene ad una Regione diversa e lui, stranamente, riesce a imitare  tutte le inflessioni dialettali.Quando, però, parla in italiano, lo fa in maniera perfetta, senza lasciare spazio a nessun indizio che possa aiutarmi a identificare quale sia la sua provenienza.Era un attore, una volta. Non si può dire che fosse un bravo attore. No. Anzi, era proprio mediocre. Ma la scuola di dizione gli è servita. In quello si è sempre distinto.Stasera il mio incarnato è pallido. Più del solito. Con la spugnetta bagnata passo sul viso un fondotinta di una tonalità ambrata, un po’ più scura di quella che uso abitualmente, poi evidenzio gli zigomi con il blush rosato e mi mordo le labbra, mentre guardo i diversi colori dei rossetti, che mi aspettano, allineati come bravi soldatini sulla mensola che ho di fronte.Le mie labbra sono belle, piene, sembrano due ciliegie mature e succose. Le ho ritoccate due giorni fa. Il filler si stava riassorbendo e al dottore ho detto che poteva eccedere un po’, visto che il risultato, la prima volta, non era stato eccellente.Per il resto non ho dovuto ricorrere a grandi ritocchi. La natura è stata benevola con il mio viso. Ho un ovale perfetto, gli zigomi alti e pieni, una fronte spaziosa ma non eccessivamente sproporzionata. La bocca no. La bocca era un disastro. Piccola e sottile. Solo un filo di labbra. Quelle labbra hanno accompagnato la mia vita fino a quando non ho deciso di spazzarle via, così come ho spazzato via gli anni in cui non avevo avuto il coraggio di fare il passo che mi avrebbe, in qualche modo, restituito la mia identità. La nuova bocca va celebrata, onorata, rispettata. La nuova bocca di Angel, la divina, la creatura che tutti bramano e che nessuno, mai, ha potuto avvicinare, va evidenziata con un rossetto violento, lucido, resistente.Lo passo con lentezza sulle labbra; prima su quelle superiori e poi sulle inferiori. Le increspo per un attimo, come se volessi mandare un bacio, poi le distendo, sorrido, le apro, ci passo la lingua. Sono un capolavoro. Il mio viso è diventato un altro grazie a quelle labbra.Il mio nome mi calza a pennello. Non ho dovuto nemmeno sforzarmi di trovarne un altro adatto a me. Ho solo dovuto togliere la vocale finale. Nulla di più semplice. Sono un angelo. Una creatura angelica, perfetta, irraggiungibile.  La voce, poi, mette i brividi. Quando canto la gente non riesce a trattenere la lacrime.“Ma come fai ad avere una voce simile?” Urlava mio padre, in preda alla rabbia.“Non puoi avere quella voce. E’ opera del demonio”, continuava, sempre più forte e iniziava a picchiarmi, picchiarmi, picchiarmi.Il pugno che si abbatte con forza sul legno della porta mi fa sussultare di paura. Ancora una volta ho permesso ai miei ricordi di impossessarsi della mia mente. Eppure lo psicologo mi ha detto che pensare al passato è inutile e che, io, ormai, devo solo pensare al mio futuro, a quello che voglio essere, a quello che sono.Il passato è un’ancora impigliata a un masso che ci impedisce di seguire nuove rotte, nuove destinazioni. Io, invece, ho avuto il coraggio di decidere la mia nuova destinazione. A diciotto anni non è facile farlo. Soprattutto se hai la sfortuna di appartenere a una famiglia come la mia.Vedevano demoni dappertutto. Hanno cercato anche di esorcizzarmi. Alla fine il parroco ha dovuto parlare con i miei genitori. 
Lui mi conosceva bene.Da quel momento in poi nessuno più ha potuto far finta di non sapere chi fossi davvero. Uno scherzo della natura, un essere abietto, un figlio da buttare.“Se solo avessi saputo che mi sarebbe toccata una simile sofferenza, ti avrei buttato in tempo”, mi urlò mia madre, il giorno in cui decisi di abbandonare le scarpe da tennis per quelle meravigliose scarpe rosse, tacco dodici, che tenevo nascoste nell’armadio, sotto giacconi informi e pantaloni di fustagno.Mia madre mi avrebbe buttato. Mio padre mi considerava una creatura del demonio. La gente del paese rideva di me. “La femminella” mi chiamavano i ragazzi, facendo gesti eloquenti con le mani e  le lingue.Se solo avessi avuto il coraggio di dire a mia madre lo strazio che mi dilaniava la mente e il cuore. Non avevo identità. Non ero né uomo né donna.  Ero nato maschio, ma di maschio non avevo nulla, se non quella protuberanza in mezzo alle gambe e quelle labbra sottili che mi ostinavo a tenere serrate.  Quelle labbra, ora, non ci sono più, così come non c’è più la vocale finale del mio nome. Angel, sono solo Angel. Sono rimasto io, con il mio corpo da maschio e la mia anima da donna. La gente lo sa, ma ora mi adora. Ora sono famoso, ricco, conosciuto. La mia identità non importa più a nessuno. La mia voce incanta, ammalia, commuove.Il mio agente si affaccia alla porta e mi lascia un enorme mazzo di rose rosse sul divanetto rosa confetto.“Leggimi il biglietto, che ho lo smalto ancora fresco”, gli dico, mentre cerco di sfilarmi la vestaglietta di seta senza rovinare la laccatura delle unghie.“Morirei felice solo pensando che in Paradiso gli angeli sono come te”.“Il biglietto dice così. Questo deve essere scemo”, commenta lui, sarcastico.Io rido, felice, lasciando cadere la vestaglietta a terra. Il mio seno è florido, alto; sembra quasi naturale.  Mi guardo allo specchio e mi sorrido, mentre l’abito di paillettes argentate copre il mio membro. Quello non l’ho eliminato. Non ancora. In fondo fa parte di me.Una parte di me.Infilo le scarpe con il tacco altissimo e copro i miei capelli biondi con la nuova parrucca. Stasera ho i capelli lunghi e ricci. Sono bellissimo o, forse, dovrei dire bellissima.“Forza Angel, muoviti, non startene imbambolata a guardarti. Ci sono centinaia di persone che ti aspettano lì fuori!” Urla come un ossesso.Ecco, il mio nome, pronunciato ancora una volta a voce alta, mi ricorda che il mio sesso non è importante. Io non ho un’identità ben definita. Ho scelto di essere quello che ero, quello che volevo essere.Io sono Angel. Sono un angelo.E gli angeli non hanno sesso.

Lorena Marcelli 

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