venerdì 26 giugno 2015

Riflessioni di una blogger di campagna : “Scrivere non è un gioco ...ma non è, soprattutto, una guerra.”





Qualche giorno fa, ho postato, sul mio profilo facebook, un pensiero semiserio sugli “scrittori emergenti” e su quello che devono saper fare, per riuscire a sopravvivere nel nuovo mercato editoriale italiano. Riassumo velocemente i concetti, partendo di nuovo dagli stessi per ampliare la riflessione, facendola diventare meno divertente e analizzando, dal mio punto di vista (quello di una blogger di campagna), la figura degli scrittori emergenti.

Nel post dicevo quanto segue:
Uno scrittore emergente e squattrinato deve: Saper scrivere (è il minimo); avere un blog; passare dalle dodici alle tredici ore sui social per farsi conoscere (e per litigare con i presunti avversari), saper creare copertine per gli ebook, tenere costantemente d'occhio la classifica Amazon, nella speranza di poter sbandierare a destra e a manca che si è entrati nella top ten; partecipare ai gruppi vari e ponderare attentamente tutto quello che dice (in base al gruppo, of course) ... e allora? Mi chiedo e mi richiedo: E il tempo necessario per scrivere, fatto di silenzio e solitudine, dove diamine si dovrebbe trovare?

Il post si chiudeva con una domanda: il tempo necessario per scrivere, fatto di silenzio e solitudine, dove diamine si dovrebbe trovare? 
È da questo punto che voglio ripartire, perché, oltre che una blogger di campagna, io sarei anche una pseudo scrittrice di altri tempi e, avendo studiato per mesi il fenomeno “ scrittura social”, vorrei dire la mia in merito all'argomento.
Perdonatemi, ma io credo che la scrittura non sia quella che viviamo tutti i giorni attraverso i post di tantissimi autori che fanno di tutto per essere notati e non è nemmeno una scalata alle classifiche varie. Sono, inoltre, fermamente convinta che non tutti quelli che si autoproclamano scrittori possano essere considerati tali.  
I social sono molto democratici, e come ogni democrazia che  si rispetti, permettono a tutti di dire la loro e, soprattutto, di pubblicare  il  proprio “capolavoro”, degno di stima e attenzione da parte di migliaia di lettori e, in primis, da parte di importanti Case Editrici. Tutti hanno il diritto di farlo, ma non tutti possono credere di essere “scrittori” meritevoli di raggiungere il successo agognato. Scrivere non è un gioco e nemmeno un modo per sbarcare il lunario in un momento di crisi. E, soprattutto, scrivere non è un modo per entrare in guerra. Parere personalissimo e discutibile, ci mancherebbe altro! Parere, però, rafforzato a seguito dell'acquisto dell'ennesimo romanzo pubblicato da un autore self, che ho smesso di leggere dopo le prime dieci pagine. Ovvio che l’autore o autrice di quel romanzo non la pensi come me, così come non lo fanno decine di altri autori/autrici che, quotidianamente, immettono sul mercato testi che non lasceranno sicuramente un buon ricordo nei lettori. Sicuramente non la pensano come me nemmeno le Case Editrici che pubblicano qualsiasi cosa dietro pagamento di un corrispettivo definito “contributo” (e anche su quest’argomento ho detto più volte la mia), o le centinaia di autori self (o autrici), che, con poche centinaia di euro, pubblicano testi che avrebbero bisogno di correzioni e sottolineature in rosso ogni due/tre parole. Con questo non voglio dire che sono contraria al self publishing, no di certo. Ho più volte ripetuto che, se qualcuno crede nel proprio lavoro, deve diventare imprenditore di se stesso, piuttosto che affidare i propri sogni nelle mani di chi non farà nulla di più che far pagare profumatamente la stampa di mille volumi, ma credo anche che ognuno di noi dovrebbe chiedersi se quello che ha scritto merita davvero di essere pubblicato e venduto. Se mancano le basi elementari della scrittura, se non si conoscono le differenze fra i pronomi personali, se si usa “gli” quando si parla di una donna, se la punteggiatura diventa un optional, se i congiuntivi sono qualcosa di sconosciuto e pericoloso e i condizionali vengono usati di tanto in tanto solo perché il suono sembra gradevole, allora, amici miei, forse è meglio lasciar perdere e dedicarsi ad altro. (Magari a un bel corso di scrittura creativa, tenuto da professionisti seri e preparati).
Sarebbe meglio ripensarci, prima di chiedere denaro per un prodotto (sì, perché il nostro romanzo/saggio/raccolta di racconti è pur sempre un prodotto), ben confezionato con copertine gradevoli e titoli importanti, corredato da recensioni  a quattro o cinque stelle, lasciate, spesso, da amici o da altri autori, in un’ottica di scambio reciproco di aiuto nelle vendite, ma con un contenuto pregno di errori e orrori. 
Qualcuno potrebbe obiettare, facendomi presente che, se un prodotto non soddisfa le nostre aspettative, può sempre essere restituito. Oh, lo so, lo so bene, credetemi, ma io sono una di quelle che non restituiscono mai nulla, così come non lo fanno tanti altri lettori, che si limitano a interrompere la lettura dopo qualche pagina. Però sono una lettrice che scrive, su un bel taccuino, il nome dell’autore o dell’autrice e di tutti coloro che hanno lasciato recensioni più che positive, e che non acquisterà mai più un altro romanzo scritto da quelle persone, così come non lo faranno altre centinaia di lettori che pensano e agiscono  nello stesso modo.
La democrazia dei social, a questo punto, evidenzia una larga e pericolosa crepa: il lettore che si sente preso in giro da un prodotto che non è di qualità, nonostante le strategie di marketing messe in atto per la vendita, è, spesso, un lettore perso, che non darà più fiducia a chi non ha avuto rispetto per la sua capacità critica.
Rispetto. Siamo arrivati al punto focale della mia riflessione. Rispetto per il lettore, unico dogma che uno scrittore, emergente e non, dovrebbe seguire e ricordare in ogni momento della carriera. Rispetto per chi investe tempo, denaro (anche se il prodotto ha un prezzo irrisorio) e fiducia in colui che, sui social, sui blog e sulle pagine facebook, sembra un autore serio, coerente, preparato e apprezzato nell’ambiente.  Non basta essere social per definirsi scrittori. Non basta avere migliaia di amici e centinaia di  persone che cliccano mi piace su tutto quello che si scrive, per non correre il rischio di essere delle meteore. Non si deve essere superficiali, quando si parla di scrittura. Non si devono scrivere  Romance (per esempio), solo perché sono i romanzi che si vendono di più. In questo modo si danneggiano due categorie di persone: i lettori e gli altri autori self  che sono davvero meritevoli di attenzione e stima (e ce ne sono tanti) e che rischiano di annegare in un mare di recensioni “di comodo”, o a causa di altri autori che faranno di tutto per screditare il loro lavoro. Scrivere è un mestiere che va svolto con umiltà, passione, pazienza e con estremo rispetto per la lingua italiana. Non si dovrebbe scrivere pensando solo alle classifiche o ai like che ricevono le nostre pagine autore. Scrivere è sudore, studio e conoscenza della lingua, della tecnica e della storia, nonché dell’intero processo creativo. Scrivere è un atto morale e non il modo per far sì che il proprio nome venga stampato accanto a un titolo d’effetto. Scrivere non è, soprattutto, una guerra fra autori,fra posti in classifica o fra trame e personaggi. Di trama principale ce n’è una sola, in fondo : lui e lei inizialmente si odiano, poi si amano, poi qualcosa rischia di rovinare la bella storia d’amore, e, infine, tutto si appiana. O forse no.  Non è così?
La guerra a colpi di classifica o di numero di copie vendute fa dimenticare lo scopo principale di ogni autore: narrare una storia degna di essere ricordata, una storia che lasci il sorriso sulle labbra o le lacrime agli occhi; una storia che, quando si giunge alla parola “fine”, ci faccia dire con sicurezza: tornerò a leggere questo scrittore. Perché è il lettore che ci proclama scrittore.

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