giovedì 14 luglio 2016

LE RECENSIONI DI LORENA

Francesca Mereu

Profondo Sud

Edizioni Esordienti E-book - € 3,99


Francesca Mereu ha iniziato la carriera di giornalista nella Russia dei primi anni Novanta. È stata corrispondente da Mosca e dalle Nazioni Unite per la radio americana Radio Free Europe/Radio Liberty, e ha trascorso sei anni al “The Moscow Times”, per il quale si è occupata di giornalismo investigativo coprendo la politica interna e i servizi di sicurezza russi. I suoi reportage da Mosca sono stati pubblicati dall’ “International Herald Tribune”, dal “The New York Times” e da numerosi giornali italiani. È autrice del libro “L’Amico Putin. L’invenzione della dittatura democratica” (Aliberti Editore, 2011) e di diverse opere teatrali. Nel 2011 si è trasferita nel profondo Sud americano e ha iniziato a scrivere di musica e di diritti civili.  Da questa esperienza sono nate le opere teatrali pubblicate dalla EEE.


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Difficile recensire un testo teatrale; lo è, soprattutto, quando non hai assistito allo spettacolo. È difficile recensire un testo come: “Profondo Sud - Storie dal profondo Sud americano per capire la lotta dei neri per la conquista dei diritti civili”.  Difficile sì, ma molto stimolante. In primis per me. Mi piace scoprire gli argomenti che ancora non conosco. Mi piace scoprirlo, soprattutto, attraverso le parole di chi, al contrario di me, li conosce molto bene e, altrettanto bene, li sa raccontare, anche perché li ha vissuti, ci è “stato dentro”, li ha “respirati”.
Francesca Mereu lo ha fatto egregiamente. Ci ha raccontato, attraverso testimonianze di personaggi veri, la schiavitù, la segregazione e la dura lotta dei neri per la conquista dei diritti civili. Nelle sue opere, ispirate al teatro documentario, l’autrice fa scoprire al lettore e allo spettatore, attraverso la voce e le emozioni dei suoi personaggi, la bellezza di questa parte di America che, ancora oggi, vive profonde contraddizioni e profonde spaccature. 
I testi sono due: “La Musica del Diavolo” e  “The Magic City”.  
La Musica del diavolo ci racconta la storia dell’America del Sud attraverso la storia del blues. L’autrice ci premette che la narrazione deve essere accompagnata da fotografie e video che illustrano i luoghi del blues, i paesaggi del Sud; da schede informative e da musica blues suonata preferibilmente dal vivo. È agosto a Birmingham, in Alabama. È agosto e l’afa ha avvolto la città nel consueto e denso abbraccio estivo. 
In Italia è luglio. Io abito quasi al Sud, anche se, geograficamente parlando, l’Abruzzo è nel bel mezzo del centro Italia. Ma anche qui fa caldo. L’afa toglie il respiro e riempie la fronte di sudore; anche in Abruzzo si ascolta il blues. Io ascolto il blues e resto rapita dalla voce di Bobby Rush, che ho riscoperto grazie a Francesca Mereu. Chiudo gli occhi e immagino che Margaret, nipote settantenne di una schiava che scriveva canzoni blues, stia parlando proprio con me, ora.  E che mi stia raccontando la storia del blues.
Questa musica piantò il suo seme a partire dal 1500, quando, donne e uomini liberi, con la pelle nera, si ritrovarono sbattuti nelle zone costiere del loro paese con  dei collari al collo e le catene che li legavano gli uni agli altri. È una musica nata dal dolore; una musica che esprime, dapprima con i suoni e in seguito con le parole, l’angoscia dei sentimenti di persone che hanno perso la libertà e la dignità.  È un ritmo nato nei campi di cotone, che poi, di fatto, ha rivoluzionato per sempre il panorama musicale americano e non solo. Di questa melodia, di questa poesia, di questa musica è impregnata l’America del Sud ed è facile comprendere perché, chi si ritrova a vivere lì, non può fare a meno di sentirsi parte di quella storia. Ma non tutti riescono a farlo. Almeno non tutti quelli che hanno la pelle bianca. Quelli che si sentono superiori, diversi, intoccabili. 
Accompagno le parole di Margaret con le foto che ho trovato in rete. Me le guardo con calma, per comprendere, per vedere quello che lei e Bobby cercano di mostrarmi con la voce. Cerco vecchie foto di Birmingham, che nasceva accompagnata da canzoni blues. La guerra civile era finita e i neri dell’America del Sud pensavano di avere davanti un futuro. La musica che ci accompagna ora si fa struggente, come lo è la voce di Margaret, che credo di udire, accanto a me, mentre continuo a leggere. Il Presidente Lincoln dichiara la schiavitù illegale, ma, paradossalmente, la situazione peggiora. Tutti gli stati del Sud approvano nuove leggi che tolgono diritti e libertà alla popolazione di colore e la schiavitù viene rimpiazzata dalla segregazione. 
Francesca Mereu ci racconta la storia di Birmingham  in “The Magic City”, la città dell’Alabama che Martin Luther King ha chiamato “la più segregata d’America”. 
È una pièce che descrive la segregazione, la lotta dei neri negli anni Sessanta per i diritti civili, e la white flight, la fuga dei bianchi dalle città per non dividerle con i concittadini che avevano acquisito pari diritti; pari diritti, ma solo sulla carta. La realtà era ben diversa; è ben diversa. Negli anni sessanta da questa città sono iniziate le manifestazioni pacifiche di neri che hanno costretto l’America ad approvare leggi che bandiscono ogni tipo di discriminazione. I neri del Sud si ribellano, sfidano i bianchi e si scatenano repressioni violente, che svegliano finalmente l’America dal suo torpore. 
Ora è il jazz ad accompagnare il racconto. L’anima della città è nera e ci si muove al ritmo del jazz e del blues. In ogni strada, vicolo, casa di Birmingham si ode  musica jazz. In questa città arrivano i musicisti più famosi, in cerca di professionisti da ingaggiare nelle loro band. In questa città, come per magia, la musica cancella la povertà e la decadenza e la West Side splende ancora di bellezza. La musica, però, non riesce ad avvicinare bianchi e neri. Quelli con la pelle chiara dicono che non si tratta di razzismo, ma di abitudine. I neri sono diversi dai bianchi, tutto qui. Non è una questione di pelle.  I bianchi vivono “Over the mountain”, oltre la montagna. I bianchi vivono nei sobborghi bianchi e i neri nei sobborghi neri. Nessuna legge, o musica, o rivoluzione, è riuscita a cambiare questa situazione. La segregazione e la separazione provocano ancora ferite che non si rimargineranno mai, forse. Eppure l’autrice spera ancora che un giorno il Sud e L’America tutta si libererà dal giogo dei pregiudizi. 
La frase di chiusura, di Martin Luther King, lascia al lettore una nota di nostalgia e  di vergogna. Vergogna per quello che non si riesce ancora ad essere, nonostante siano passati secoli, da quando i neri del Sud furono privati della libertà. 
Brava, Francesca Mereu. Brava davvero.

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