martedì 6 ottobre 2015

VI CONSIGLIAMO


LA COLLINA DEI GIRASOLI



Autore: Lorena Marcelli
Formato: Epub, Kindle
  • Editore: Edizioni Esordienti E-book (12 settembre 2015)
  • Lunghezza stampa: 154
  • Costo ebook € 4,99
Acquistabile sul sito dell'Editore, su Amazon e su tutti gli store online
SINOSSI

Topazio, Perla, Giada e Ambra sono quattro sorelle, figlie di un orafo famoso, ma l’unica cosa che le accomuna davvero è di avere il nome di una pietra preziosa, perché sono molto diverse tra loro, e non si sopportano a vicenda; il padre muore prematuramente in un incidente e la madre, Luisa, una donna immorale e superficiale, è incapace di dare loro l’affetto di cui hanno bisogno. Le due sorelle maggiori diventano delle donne insicure, sentimentalmente fragili e insoddisfatte, mentre Giada e, in particolare, Ambra, più sensibili, conosceranno l’affetto materno della zia Elia, che vive in campagna e che accoglierà soprattutto Ambra ogni estate. In questo contesto sano e affettuoso la ragazza ritrova se stessa, decide cosa voler fare e conoscerà anche l’amore della sua vita. Un romanzo delicato e profondo, sulle relazioni famigliari e sui sentimenti, sullo sfondo della campagna abruzzese.

Dal sito dell'editore www.edizioniesordienti.com 

INCIPIT

Appena superò la curva, si trovò davanti al paesaggio che, in tutti quegli anni, non era riuscita a dimenticare. Aveva deciso di tornare nella sua terra d’estate, in giugno. Voleva rivedere i magnifici colori dei girasoli, del grano, dei papaveri proprio in quel periodo dell’anno, quando la collina era nel pieno del suo fulgore. Scalò le marce e avanzò lentamente, cercando di ricordare dove fosse quella piccola rientranza, adatta per parcheggiare. La trovò senza fatica, come se, negli anni, non avesse mai smesso di percorrere quelle strette e polverose strade di campagna che, da piccola, avrebbe ritrovato anche a occhi chiusi, seguendo il frinire delle cicale e il profumo delle ciliegie. Era a casa, nella sua terra, nel posto in cui il suo cuore aveva sempre trovato rifugio, pace. Finalmente.




Rallentò, portando il motore al minimo, prima di fermarsi sul ciglio della strada sterrata. Spense il motore e aprì il finestrino dell’auto, che aveva preso a noleggio a Roma, appena scesa dall’aereo. Il sole era alto nel cielo e il frinire delle cicale era incessante, assordante quasi. Tutto intorno l’aria era immobile, in attesa. Sembrava che la campagna la stesse aspettando e che si fosse messa il vestito buono, quello dei giorni di festa, che sua nonna le faceva indossare solo di domenica, per andare in chiesa. Tutto era come allora, o quasi. Tese la mano sottile e pallida verso la capiente borsa da viaggio e tirò fuori la reflex, poi aprì lo sportello dell’auto. Il calore era quasi insopportabile; erano anni che non sentiva quel sole sulla pelle e le piaceva riscoprire sensazioni sopite, accantonate in un angolo della memoria, ma mai dimenticate. Mentre cercava la prospettiva migliore per scattare le foto che voleva pubblicare sulla sua pagina personale, si soffermò a guardare il paesaggio nella sua completezza e fu assalita da un’emozione fortissima. Ebbe un capogiro e lasciò la reflex sul tettuccio dell’auto. Sentiva il profumo del grano maturo, dei girasoli, alti più di lei, dei papaveri, della terra umida, irrigata durante le ore notturne dai contadini che non smettevano mai di lavorare, nemmeno nel giorno in cui Dio stesso si riposò. Si allontanò dall’auto e raggiunse il campo di grano che, di lì a poco, sarebbe stato mietuto, lasciando il posto a distese dorate. I papaveri erano nel pieno della fioritura e oscillavano delicatamente, ballando sotto la spinta della leggera brezza pomeridiana. Ne toccò uno, accarezzando lievemente e pensando ai giorni in cui, con Fabio, il suo amico del cuore, si rotolava in quei campi. Voleva raccogliere tantissimi fiori e farne un mazzo enorme. Voleva prendere il papavero più grande e togliere tutti i petali macchiandosi le dita, proprio come quando era bambina. Avrebbe strappato gli stami neri e sarebbe rimasta solo con il grosso pistillo, a forma di stella; si sarebbe di nuovo fatta i timbri sulle mani, sulla fronte. Si sarebbe riempita di timbri.

Si fermò in mezzo al campo e si guardò intorno con molta calma. Si sentiva bene come non le capitava da tempo, ormai. Ai suoi piedi sentì un rumore, poi un fruscio veloce. Una grossa lucertola si allontanò, facendola sobbalzare per lo spavento. Rivide se stessa a dieci anni e come allora ripercorse la strada sterrata. Le scarpe si riempirono di polvere in un attimo. La polvere s’insinuò tra le dita dei piedi e lei sorrise, pensando che anche un tempo i suoi piedi erano costantemente impolverati. Con il mazzo di papaveri fra le braccia s’inerpicò lungo la stradina, continuando a camminare lentamente, lasciando che il sole le inondasse il viso e che i profumi della campagna le riempissero il naso, mentre gli occhi chiari si abituavano a quella luce, quasi accecante.

Aveva recuperato la reflex e ogni tanto si fermava e scattava una foto. Sapeva che le immagini digitali non avrebbero mai potuto eguagliare le immagini impresse nella sua mente, nel suo cuore. Oltre i rumori della natura, nessun altro si udiva nell’aria. I girasoli si muovevano lentamente, spinti da una leggera brezza, appena percettibile. Da quelle parti ci si andava solo se si dovevano svolgere lavori nei campi. Nessuno sarebbe andato lì per caso. Bisognava conoscere la strada e prima di arrivare c’erano tante deviazioni da fare. Era impossibile non perdersi, se non ci si era mai stati prima, in compagnia di qualcuno della zona. Poco dopo, con il cuore che le batteva furioso nel petto, raggiunse la casa. Per lei quella sarebbe stata sempre la sua casa, anche se ora era un rudere. Se la guardava, tenendosi sul lato in cui si era fermata, le appariva ancora perfetta: solo un po’ annerita dall’umidità e dal disuso. Una volta in quel luogo c’era vita, c’era allegria, c’era amore. C’erano i suoi nonni e c’era sua zia, la zitella che tutti chiamavano “la matta”solo perché aveva rifiutato di sposare un ricco uomo della zona: vedovo e brutto come la paura.

“Mi sposerò solo per amore” affermava con convinzione, ma l’appellativo che le avevano affibbiato in paese aveva distrutto i suoi sogni. Nessun giovanotto del luogo si era più avvicinato a lei e “la matta”aveva riversato tutto il suo amore sulla nipote più piccola. Mai più nessuno l’aveva amata come Elia. Dopo tanti anni ne sentiva ancora la mancanza e, ogni volta che pensava a lei, come in quel momento, i suoi occhi si riempivano di lacrime che sapevano di ricordi, di un dolore che non era mai passato e che, forse, non sarebbe mai passato sul serio.

La casa era invasa dai rovi e dalle sterpaglie. Una lunga crepa la percorreva sui lati rimasti ancora in piedi. Chissà per quanto ancora! Il tetto era in parte crollato e i piccioni svolazzavano fra i buchi che riusciva a intravedere dal punto in cui si era fermata per osservare ciò che ne rimaneva. La sua finestra c’era ancora. S’intravedeva sotto i rami della bougainvillea diventata enorme. Il recinto di legno, che una volta delimitava il cortile, era ormai ridotto a un ammasso di legno fradicio e le assi penzolavano precariamente, sfiorando il terreno invaso dalle erbacce. Una volta quel recinto era colorato e in ordine. Ogni anno era sistemato, sverniciato e dipinto di nuovo; il nonno le faceva scegliere sempre il colore che preferiva e passavano intere giornate a lavorare. Lei ciarliera e lui silenzioso, con il sigaro perennemente spento fra le labbra. La rimproverava perché s’imbrattava sempre con i pennelli, e, alla fine della giornata, la nonna la immergeva in una tinozza d’acqua calda e la lavava per bene, fino a quando la pelle non diventava rossa e lucida.

La vecchia e imponente quercia era sempre lì, custode della casa, custode di tanti segreti passati, ora custode del nulla, del vuoto, del silenzio. Sotto quella quercia, nascosta dall’enorme tronco, aveva baciato il figlio del calzolaio, aveva litigato con lui, aveva strappato le lettere d’amore che le scriveva. Non ricordava nemmeno il nome del ragazzo, ma lo scappellotto che le aveva dato il nonno le bruciava ancora in testa. Si sedette ai piedi dell’albero e lasciò che lo sguardo si allungasse oltre la collina, dietro la casa. Con le mani accarezzò la ruvida corteccia e raccolse un pugno di terra. Odorava la sua terra. Odorava di ricordi e di dolore, odorava di sudore. Faceva parte della sua vita. Era l’odore della sua vita. Il vigneto brillava al sole come uno smeraldo. Gli acini erano piccoli, acerbi, ma presto sarebbero diventati grandi, succosi, pronti da raccogliere. Quel vigneto era la sua passione, in autunno. Dalla finestra della sua camera passava ore a fotografare, a disegnare, a dipingere i meravigliosi colori che la natura regalava ai tralci, alle foglie, ai grappoli d’uva. Ora aveva un colore uniforme, reso più chiaro solo dai chicchi appena accennati. Più giù, in fondo alla collina, c’era il frutteto. Ciliegi, meli, limoni, fichi… il suo giardino segreto. Chissà se c’era ancora? Il suo capanno, le sue ortensie, le sue rose. La voglia di sapere e di rivedere il suo giardino la fece alzare di scatto. Imboccò l’antico viottolo e iniziò a correre, presa dalla smania di ritrovarsi in quei luoghi…

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