Un articolo sovrappeso
di Manuela Leonessa
Fine Luglio, tempo di mare e di bikini per molte, ma non per tutte.
Tante si sono ritrovate di fronte allo specchio con il conto alla rovescia ormai esaurito. A Marzo ci eravamo dette: “Ho 4 mesi di tempo, riuscirò ben a perdere due chili al mese, no? Fanno otto chili. Perfetto!”
E invece a fine luglio ci ritroviamo con i chili ancora tutti lì. Come è potuto accadere?
Torniamo indietro nel tempo. Torniamo a Marzo. Se va bene abbiamo esattamente il peso che avevamo a marzo dell’anno prima; se va male anche un paio di chili in più. Ma siamo sicure che stavolta ce la faremo. Non abbiamo nessun elemento che avvalori la nostra tesi, ma non importa: volere è potere e noi, ardentemente, vogliamo.
Così ce lo diciamo e ce lo ripetiamo: “Da adesso sono a dieta.”
Dieta, una parola bellissima. Cinque lettere che racchiudono il segreto della perfezione, il mistero dell’eterna giovinezza. Perché è ovvio, nel delirio perfezionista evocato dalla nostra aspirazione, il giorno che finalmente saremo magre saremo anche inspiegabilmente belle. E giovani.
Decidiamo per una dieta drastica. Chi ben comincia è a metà dell’opera. Se si rivelerà troppo dura potremo correggere il tiro cammin facendo. L’importante è che i risultati si vedano in fretta. Questo ci servirà da incoraggiamento. Del resto che ci vuole? Basta non mangiare.
Di tutto quello che può accadere tra un frugale pasto e l’altro non ci preoccupiamo. Attacchi di fame, voglia smodata di cibi proibiti, debolezza e la languida nostalgia per l’atto del masticare, sono tutti aspetti che neanche consideriamo. Di fronte a noi c’è solo il prendisole comprato l’anno scorso, quello che non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere, perché ci faceva assomigliare a una mongolfiera. Oggi gli abbiamo tolto l’etichetta perché quest’anno lo indosseremo, è una certezza.
Così pranziamo con uno yogurt magro, camminando a passo leggero per la cucina, come la modella della pubblicità. Visto? E che ci vuole? Ci tastiamo con consapevolezza l’addome. Mica ci aspettavamo che fosse già sparito... ma sparirà.
All’una e mezza ci concediamo anche una pesca. Del resto uno yogurt è davvero troppo poco, mica voglio fare come quelle incompetenti che perdono sette chili in un mese e ne recuperano nove quello successivo! Già che ci sono addento anche una fetta di pane, tanto è integrale.
La giornata si avvia verso la sera. Mi sento già una persona nuova, ma il primo ostacolo si staglia impietoso sul mio cammino: la cena.
Cosa preparo per cena? Pensavo di mangiarmi un’insalatina scondita. Ma cosa darò da mangiare ai miei figli? E a mio marito? Mica si accontenteranno di un po’ di erba nel piatto, e hanno ragione, quella a dieta sono solo io.
Così mi accingo a preparare per loro un vero pasto. Tolgo dal frigo tutto quanto c’è di buono. Che piacere tenere in mano quelle leccornie. Tolgo dal suo involucro il prosciutto aspirandone con autentico amore il profumo. Grattugio il parmigiano contemplando i riccioli di formaggio che si adagiano nel piatto con grazia. Affetto le zucchine, sono perfette nella loro fragranza. Odo il cric della scorza ad ogni affondo di coltello. Preparo il piatto di zucchine al forno con un entusiasmo fino ad ora sconosciuto, al punto che sbaglio le dosi e devo contenerlo nella teglia più grande, quella per gli ospiti. Ma sono fiera di me, sono convinta che sarà buonissimo.
A tavola guardo con orgoglio il mio piatto di insalata quasi scondita. Quasi. Un cucchiaino di olio extravergine di oliva è sempre concesso.
Intanto servo porzioni abbondanti di zucchine al forno ai miei cari.
La fame urla nello stomaco. L’aria mi riempie la pancia peggio della ricotta in un cannolo ripieno. Cavolo, produco solo paragoni culinari, il cibo mi riempie la testa. Che diamine, una fettina di zucchine al forno che sarà mai! Decido di essermela guadagnata, così me ne prendo una fetta. Non esageriamo, mezza.
Il pasto è una festa, un’apoteosi di complimenti meritati, soprattutto perché ho cucinato per tutti tranne che per me.
Finita la cena mio marito si chiude in bagno e i miei figli in camera.
Resto da sola con i piatti da lavare. Le zucchine al forno sono state un trionfo, ma ne resta ancora una fetta enorme nella teglia. A casa mia non si butta via niente, ma le dimensioni di quella fetta non equivalgono a nessun modello standard. Troppo grande per essere considerata una porzione, troppo piccola per due. L’azione anticipa il pensiero e mi ritrovo a divorala a cucchiaiate. È un momento di pura gioia.
Il mio stomaco si sintonizza sul mio entusiasmo e più veloce di un pensiero ultimo, si gonfia. Dolorosamente mi riscuoto.
“Sono una fallita.”
Non mi rendo neanche conto di averlo pensato, ma lo accetto come incontrovertibilmente vero.
Ma ragioniamo. Mi ritengo una fallita e ho solo mangiato una fetta di torta alla zucchina.
Sono davvero una fallita o erano le mie pretese ad essere sovradimensionate?
Un barattolino di yogurt e una insalatina. Siamo realistici, avrebbero dovuto chiudermi in bagno e buttare via la chiave per impedirmi di mangiare quella fetta. Più che fallita direi che ero affamata.
Ma le diete richiedono il prezzo di un po’ di fame; se non sono in grado di resistere non riuscirò mai a dimagrire.
E chi l’ha detto che non riuscirò mai a resistere? Forse si tratta di correggere un po’ il tiro, forse si tratta solo di imparare a conoscere e prevedere meglio le mie reazioni.
D’accordo, ho mangiato una fetta di torta alla zucchina, e allora? È solo sulla base di questo sgarro che ho deciso di non essere in grado di affrontare una dieta?
Ho altre evidenze che sostengono questa affermazione? No?
Francamente, allora, direi che ho pochi elementi per sostenere la mia teoria.
Ma torniamo alla fetta di zucchina e al fatto di considerarmi una fallita.
Proviamo a pensare a quale conclusione sarei giunta se, mangiando quella fetta, non fossi stata a dieta. Probabilmente alla conclusione che sono un' ottima cuoca.
Invece no, mi colpevolizzo, innescando tutta una serie di pensieri che avranno il solo risultato di minare la mia determinazione: “È tutto inutile, lasciamo perdere.”
Oppure: “Potrei andare da un dietologo, ma tanto so che mio marito non è d’accordo, è convinto che sarebbero soldi buttati via.”
Questa convinzione non si sa bene da dove salti fuori, visto che a vostro marito non avete mai chiesto nulla e non avete ancora imparato a leggergli nel pensiero.
Questi, come altri, sono tutti pensieri distorti, privi di alcuna logica, che ci facciamo girare nella testa continuamente. Automaticamente. E che accettiamo sempre, passivamente, per veri.
Proviamo ad ascoltarci ogni qual volta ci investe un’emozione; proviamo a scoprire il pensiero che l’ha generata. E non venite a dirmi che non c’è stato nessun pensiero: un’emozione scaturisce sempre da un pensiero.
E quando avremo imparato ad ascoltare questi pensieri potremo analizzarli, scoprire quanto sono illogici e se diventeremo veramente brave potremo modificarli. Allora la vita sarà più semplice. E le diete pure.
*****
Voce del verbo cellulare
(ovvero, della cellulare - addiction)- Di Manuela
Leonessa
Oggi è il compleanno di mia figlia, compie 17 anni,
si chiama Iside ed è bellissima.
Mia suocera le ha regalato un cellulare.
Che bello, un cellulare. Proprio un regalo adatto a
una diciassettenne, direte voi, peccato che sia il quinto.
Una suocera è pur sempre una suocera, è insito nella
natura umana tollerarla a malapena, e mi piacerebbe scagliarmi contro la sua
inettitudine pensando che, almeno nella scelta dei regali di compleanno, sia una perfetta cretina, ma non posso. Perché
Iside l’ha tormentata per mesi, convincendola della necessità di un nuovo cellulare.
Mia suocera ha
la passione dei profumi e dei bagnoschiuma d’autore. Avrebbe tanto voluto
regalare a sua nipote un profumo con annessa cintura firmata. Una confezione
elegante di quelle che lei definisce perfette per una vera signorina. Ma a mia figlia non interessa molto diventare una vera signorina, preferisce avere cinque
cellulari, e l’ha spiegato a sua nonna senza troppi giri di parole.
Da piccola, Iside non la nonna, aveva una carrellata
di Barbie che non finiva più. Le allineava sul letto ognuna con il proprio
nome. Nomi terribili tratti dalle telenovelas. Noi non guardiamo le
telenovelas, ma mia suocera sì. Forse è per questo che crede ancora al concetto
di vera signorina. Ad ogni modo erano
11 Barbie(sette, ovviamente, gliele aveva regalate lei) ognuna con un nome da
spavento e tutte ugualmente indispensabili. Una faceva la maestra, abitava in
una casa sull’angolo destro della testata del letto a cui si accedeva
scavalcando un recinto fatto con i pennarelli Jumbo della Carioca, la seconda aveva il
negozio di panetteria proprio al centro del letto. La panetteria era fondamentale, perché le figlie delle Barbie (niente
figli maschi naturalmente) dovevano comprarsi la pizza tutte le mattine prima
di andare a scuola. Le altre nove avevano ruoli altrettanto importanti ma
possiamo evitarceli. Era solo per darvi un’idea.
Non voglio dire che i telefonini siano come le Barbie, ma per Iside,
sono tutti, ugualmente, indispensabili.
Il giorno del suo compleanno, suo padre e io, le
abbiamo regalato l’abbonamento al teatro Stabile. Lei lo ha accolto con giubilo
eccessivo prima di metterlo da parte in
fretta. A quel punto si è concentrata con felina determinazione sul pacco che per
forma e dimensioni doveva contenere il nuovo cellulare. Lo ha aperto con materna sollecitudine, lo ha
preso in mano con affetto antropomorfizzato. Al nostro abbonamento già non
pensava più, ma il fatto che si sia dimenticata di ringraziare la suocera ha
mitigato un po’ la mia delusione.
Comunque: il primo telefonino lo usa per le compagne di scuola, il secondo lo utilizza
principalmente per giocare e connettersi a Internet. Col terzo cellulare comunica con gli amici che
esulano dalla scuola, il quarto lo usa per lavoro (studia all’alberghiero, ha contatti
con diversi ristoranti che la chiamano ad ore soprattutto in occasione di
matrimoni e feste). Mancava solo il cellulare per comunicare con noi.
Ci siamo sempre lamentati delle difficoltà che
incontriamo per metterci in contatto con nostra figlia, perché pur avendo
quattro cellulari in tasca, non ci chiama mai. Iside ha una mentalità da
ragioniera, pianifica i costi e le spese necessarie per mantenere attive le
quattro linee telefoniche sulla base delle sue disponibilità finanziarie. In
questo piano noi non siamo contemplati. Se deve fare tardi, se decide di
fermarsi a cena, fuori casa, lo faa e basta. Quando la giusta ansia genitoriale
arriva al parossismo chiamiamo noi. Inutile dire delle litigate, le sue
motivazioni sono inattaccabili, almeno dal suo punto di vista. Il nostro conta
poco.
Così il quinto
telefonino l’ha voluto per noi, di cosa
ci lamentiamo?
Io infatti non mi lamento. Mi preoccupo.
Se bere un bicchiere di vino ogni tanto è salutare,
ma scolarsi una bottiglia a pasto è etilismo, se comprare un Gratta e Vinci
ogni tanto è una coccola, ma giocare a costo della bancarotta è dipendenza,
allora mi chiedo se avere cinque cellulari, quando uno basta e avanza non sia
argomento sufficiente da attivare la mia allerta.
Quanto tempo passa mediamente vostro figlio al
telefonino?
Non è per ripetermi, ma mia figlia di telefonini
adesso ne ha cinque, e dal momento che è cresciuta nutrita dai sani principi
dell’ egualitarismo e dell’imparzialità,
dedica ad ognuno di loro lo stesso tempo. Tra telefonate e SMS, se contiamo sia
quelli in entrata che quelli in uscita, credo che superi ogni giorno i 300
contatti. Certo con tutta questa attività cellulare il tempo per studiare resta
poco. Il rendimento scolastico infatti ne risente soprattutto per quel che
riguarda l’italiano. Ma non è solo una questione di applicazione. Da quando,
grazie al quinto telefonino, messaggia anche con noi, ho scoperto in mia figlia
un insospettabile dono della sintesi. I suoi messaggi sono più o meno di questo
tenore.
“nn vgo cna.
Nn aspti”. Se anche nei temi scrive così, capisco perché la professoressa non è
contenta.
Noi non riusciamo a capire mai che cosa vuole dirci, ci
accontentiamo di constatare che se ci scrive vuol dire che è ancora viva. Una
volta, ho provato a ricambiarla con la stessa moneta e le ho scritto:
“mnbgchjyt gdfreti gdlmnnnuita re?”
Lei ha capito tutto e mi ha risposto immediatamente
“Yes.”
Mia figlia non
parla più, messaggia. Anche quando non è sola.
L’altro giorno, per caso, l’ho vista al bar con
un’amica, Se ne stavano sedute a un
tavolino, una di fronte all’altra. Non si parlavano, non si guardavano. Erano entrambe chine sul proprio smartphone ad agitare selvaggiamente le dita. Si
parlavano così.
Certo questo tipo di comunicazione ha i suoi
vantaggi. Il telefonino media le relazioni con l’altro, evita il contatto
diretto, permettendo di idealizzare
l’amico che, in questo modo, possiamo
immaginare sempre sorridente, sempre gentile. L’amico dall’altra parte del filo
(ma non c’è più nemmeno il filo) mi dà sempre ragione, difficile trovare un
occasione di litigio. Come faccio a litigare con gli SMS? Mi stanco prima.
E poi mi sono accorta che mia figlia non sa stare
senza telefonini accesi. Con la scusa
che qualcuno potrebbe cercarla anche di notte non li spegne neanche quando
dorme. E’ un’abitudine che ha i suoi vantaggi dal momento che la sveglia con
lei non ha mai funzionato. Al mattino
quando non si vuole alzare, le telefono. Non sul quinto cellulare, quello lo
tiene spento, ma io conosco i numeri degli altri quattro.
Però non va bene lo stesso. Iside usa i cellulari
come fossero degli ansiolitici, non li spegne mai per non restare sola, per non
sentirsi isolata. Il cellulare è diventato per lei il simbolo della presenza
dell’altro. Solo che lei di telefonini ne ha cinque, così non sapendo bene a
quale altro riferirsi ha fatto prima ad affezionarsi ai telefonini. Se li porta
dappertutto come dei feticci. Se i
telefonini sono accesi non si sente sola se sono spenti sì. Mi è venuto il
dubbio che i telefonini spenti equivalgano per lei a una condizione di non
esistenza.
Mia figlia è cambiata, ma non so come. Come faccio a
scoprirlo se non mi parla più?
Ma vi ricordate quando esistevano le cabine telefoniche?
Il telefono non era un prolungamento della personalità dell’individuo, men che
meno un suo sostituto. C’erano lunghi momenti in cui stavamo soli con noi
stessi, e ci annoiavamo.
La noia. Quel meraviglioso vuoto che ci costringeva a
guardare in noi stessi.
Oggi i giovani non si annoiano più. Parlo dei
giovani, ma per noi adulti è lo stesso. Non siamo più capaci di stare soli. Il
cellulare è diventato un compagno totalizzante.
E noi siamo
sempre più isolati.
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